Shoah, a Trieste la testimonianza di Riccardo Goruppi: «Ho vissuto l’incubo e lo racconto ai giovani per far capire il dolore generato dall’odio»
Le parole del presidente onorario dell’Aned di Trieste, classe 1927: «A Dachau ero diventato un numero»

Riccardo Goruppi fotografato da Massimo Silvano
TRIESTE «Se tutti quelli che han sofferto raccontassero le loro storie, non so se sarebbero capiti. Ma sarebbe utile perché queste cose, che sono successe, le ha portate la guerra. Ad alcuni ha portato solo dolore e morte, ad altri denari. La guerra è la cosa più brutta». Riccardo Goruppi – Gorup, prima dell’italianizzazione – è presidente onorario dell’Associazione nazionale ex deportati di Trieste. Uno degli ultimi superstiti dei campi nazisti: lui stesso assicura che oggi, in provincia, saranno rimaste meno di dieci persone.
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È nato a Prosecco nel 1927. A quattordici anni diventò apprendista al cantiere navale. Un giorno, andando al lavoro, urlò qualcosa in sloveno a un collega. Per questo furono presi da due «militi fascisti», portati in un ufficio e picchiati. Dopo l’8 settembre 1943 si unì ai partigiani del Carso. Arrestato nel ’44 assieme al padre Edoardo a seguito di una delazione, fu incarcerato a Trieste, all’epoca occupata dai tedeschi. Fu quindi deportato a Dachau, Leonberg, Mühldorf e Kaufering. «Appena arrivato a Dachau, non mi sono accorto di cos’era. Sul piazzale non c’era nessuno. Poi il comandante ci ha fatto il discorso: da questo momento non potete più comunicare con l’esterno; siete dei numeri, dei pezzi e siete “Scheisse”. Il numero era la tua identità, il triangolo il motivo per cui eri dentro: ce n’erano di tanti colori. I peggio trattati erano gli ebrei, i sovietici e gli italiani».
Ha raccontato ancora una volta per noi la sua storia, tante volte narrata a voce e trascritta nel suo libro “Partigiano e deportato”, curato dalla storica Dunja Nanut. Goruppi ha fatto della «testimonianza» una missione, per un’esigenza personale di «mettere in fila i pezzi» ma soprattutto perché «era mio dovere. Ero là con mio padre, liquidato il 20 febbraio 1945 a Leonberg». Siccome Edoardo «non riusciva più a mangiare», Riccardo ottenne da un kapò il permesso di trascinarlo al “Revier”, la baracca degli ammalati: «Le sue ultime parole furono: “da qui uno dei due deve arrivare a casa, io non più”. Sono persuaso di aver avuto la sua protezione, da quel momento». Dopo aver «deposto» il padre sul letto, andò al turno di lavoro. Quando tornò a cercarlo, apprese che nel frattempo era morto. Poi «sono uscito sulla collina. Ho trovato la fossa comune, ci sarei finito pure io, se avessi incontrato le Ss. Sono quasi sicuro di aver intravisto mio padre: erano gettati là dentro, abbracciati gli uni agli altri, e c’era la calce bianca».
In seguito si ammalò di tifo. Fu trasferito a Mühldorf e poi a Kaufering, campo tristemente noto come uno dei più duri: vi si moriva di lavoro e di fame. Giunto allo stremo, là perdeva spesso la coscienza e la vista. Verso la fine della guerra i nazisti smisero di rimuovere i cadaveri dai blocchi dove gli schiavi dormivano: Goruppi ha assistito, senza prendervi parte, a un tentativo di cannibalismo su di un corpo morto. Durante un ulteriore trasferimento, il convoglio su cui viaggiava fu fermato e attaccato dagli alleati. Si nascose. Dopo non sa quanto tempo trascorso nel silenzio, si sentì puntare un fucile contro la nuca: subito però quel soldato afroamericano vide che si trattava di prigionieri, e scoppiò a piangere.
Da raccontare ci sarebbe ancora molto altro. Goruppi ha iniziato a farlo negli anni ’60, in forma ristretta, mentre la sua opera di testimonianza pubblica è cominciata negli anni ’80. «Prima non riuscivo. Non arrivavo alla fine, mi prendeva la crisi. Ce l’ho fatta grazie anche all’aiuto della nuova generazione di storici. Per me la cosa più importante è che i giovani riescano a capire quanto dolore porta quando uno odia». Negli anni è tornato nei luoghi della sua deportazione, nel ruolo di testimone, intessendo anche relazioni con altri ex detenuti e con le istituzioni civili e di ricerca tedesche. Ma chi ha vissuto il Novecento, come lui, che cosa prova dinanzi al mondo e alla società del 2021? «Mai avrei pensato che saremmo arrivati a questo pandemonio: la malattia, le questioni politiche e tutto. Però ci siamo. Già che ci siamo, dobbiamo cercare di sopravvivere e di non perdere la speranza». —
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