Servono protettori, santi veri o scrittori, per vivere a Trieste, nel luogo di tutte le diaspore

Li cercavo nelle librerie antiquarie e in quelle pagine scoprivo le loro vite, il loro tempo, il loro destino
"Libro in vista Slataper" dell'illustratrice triestina Susanna Tosatti
"Libro in vista Slataper" dell'illustratrice triestina Susanna Tosatti

A Trieste, anche io mi sentivo a casa. Ma, per sentirsi ancora più a casa nel luogo dove si andrà a vivere, bisogna trovarsi un santo protettore. E Trieste ne aveva in abbondanza, a cominciare da san Spiridone e san Giusto. Tutti i giorni mi fermavo alla libreria Achille, a ridosso della Città Vecchia, dai Misan, padre e figlio, triestini del mar Ionio, o in via Ciamician dal padovano Volpato, o alla Minerva, nella leggendaria via San Nicolò. Il vecchio libraio Zorzon, della Libreria Internazionale Italo Svevo, dove più di vent’anni fa avevo scoperto tanti tesori, se n’era andato, e quel che restava del suo catalogo si era disperso.

Ritrovavo Voghera e Bazlen, Benco e Stuparich, Bolaffio e Burton, Giotti e Marin… Antonio De Giuliani, triestino di nascita e viennese d’elezione, umanista dei secoli diciottesimo e diciannovesimo, mi regalava osservazioni folgoranti, da letterato illuminato qual era, sull’Europa del dopo Waterloo. Poi, per le vie di Trieste, c’erano sempre Joyce e Svevo. Enrico Elia ridava vita al fiumano Antonio Smareglia, e Le nozze istriane faceva intravedere l’immenso continente che era la penisola veneziana e romana. Le lettere di Enrico Morovich ricostruivano la Fiume imperiale, poliglotta e sovrana. Tutti questi libri mi parlavano del loro tempo, della loro vita, del loro destino. E a ogni angolo di Trieste incontravo Saba, come succede ogni volta che si legge una delle sue poesie.

Trieste è il luogo di tutte le diaspore, dove la scelta tra l’esilio e le radici, tra la calma e l’inquietudine, non esiste più. Con Lo Zibaldone, Anita Pittoni volle dare un punto fermo alla sua città. Scrive: «Ho immaginato e fondato il programma dello Zibaldone armata del coraggio dei poveri: volevo offrire un viaggio ideale attraverso il tempo e i soggetti più vari sulle ali della poesia e del pensiero, per fare conoscere dal vivo la storia di questa porta orientale aperta sull’Europa». La città di Bobi, all’interno del libro L’Anima di Trieste, è un omaggio all’amico e ispiratore Roberto Bazlen, ormai scomparso. Con questo scritto, Pittoni ricongiunge idealmente il letterato vagabondo, che visse a Genova, Milano e Roma, alla sua città, Trieste, passata dalle mani dell’Impero all’Italia «unificata», e cita una lettera di Bazlen a Giorgio Voghera, uno dei suoi più cari amici triestini.

In un giorno di luglio del 1965, dopo un’assenza di trent’anni dalla sua città natale, due settimane prima di morire in una stanza d’albergo a Milano, Bazlen scrive a Voghera: «Che ne diresti se rimettessi radici a Trieste? Ce la farei?». Pittoni commenta: «Ci basti il conforto che Roberto Bazlen abbia pensato a Trieste come a una possibile soluzione». Poi cita anche una lettera che le scrisse dopo la morte di Bobi Liuba Blumenthal, sua fedele compagna per quasi trent’anni: «Trieste era sempre nei suoi pensieri. Egli desiderava moltissimo di farmi conoscere la sua città ed io sapevo di tutti i luoghi che avevano importanza per lui. Otto o nove anni fa, Bobi è stato a Trieste, ma desiderava che nessuno lo sapesse perché dentro di lui non aveva ancora risolto tutte le sue difficoltà». «La città di Bobi» scrive Anita «è un reagente infallibile per individuare coloro che hanno fatto la scelta di fondo più difficile nel mondo moderno … difesa e salvaguardia della personalità individuale, per se stessi e per gli altri». Echi di civiltà da un avamposto del Sacro Romano Impero, all’incrocio delle terre dell’Europa occidentale e centrale. —

(Tratto da “Alphabet triestin”, da poco nelle librerie francesi per i tipi delle Editions La Baconnière traduzione di Valeria Gattei)

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