«Serve tempo e più integrazione»
Tra gli stranieri di fede musulmana che vivono a Monfalcone c’è poca voglia di parlare della linea assunta dal sindaco Anna Cisint e dalla sua amministrazione sull’uso del velo da parte delle donne islamiche. Da un lato perché non si vuole creare frizioni inutili in un quadro politico rovesciato rispetto agli ultimi anni e dall’altro perché il provvedimento non viene alla fine ritenuto peggiorativo di quanto non sia già previsto dalla normativa nazionale.
C’è, però, anche chi ritiene sia più importante occuparsi di altri temi, a iniziare da quello del benessere e delle prospettive delle seconda generazione e quindi dei tanti ragazzi e ragazze nati in città. «Dopo trent’anni in Italia, mi rifiuto di commentare il provvedimento assunto dall’amministrazione comunale - afferma Bou Konate, già assessore comunale e attivo nel centro culturale islamico di via Duca d’Aosta -. Cerco di andare oltre e di occuparmi del futuro dei nostri figli. Le ragazze e i ragazzi figli di stranieri devono studiare e avere le stesse opportunità dei giovani di origine italiana e non immaginare per se stessi solo una vita come quella dei loro genitori, perché non vogliamo si riproducano in Italia le situazioni esistenti in altri Paesi europei».
Il diverso uso del velo, secondo Konate, dipende poi più da un fattore culturale che religioso. «Quindi ci vuole tempo e pazienza, perché i cambiamenti nella cultura delle persone non possono essere improvvisi - rileva -. Se così fosse, si rischierebbe piuttosto uno squilibrio in quelle persone e non una maggiore integrazione. I cambiamenti, inoltre, spesso sono frutto anche di battaglie e conquiste individuali, oltre che collettive. In Italia ci sono voluti decenni per arrivare al divorzio e al riconoscimento di altri diritti delle donne, ma sono stati raggiunti».
Secondo Konate, sarebbe in ogni caso preferibile creare occasioni di inclusione e non di divisione in un territorio che «continua ad avere bisogno degli immigrati, per l’industria e i servizi alla persona». «Si tratta, come nel resto d’Italia - aggiunge -, di persone giovani, che quindi pagano le tasse e i contributi previdenziali. Gli stranieri, quindi, sono “utili”, ma si dovrebbe estendere questa “utilità”, favorendo il senso di appartenenza a questo territorio e all’Italia».
Per Jahangir Sarkar, presidente dell’Associazione genitori del Bangladesh, l’amministrazione comunale ha «in parte ragione». «Negli uffici bisogna farsi riconoscere - afferma -. Va bene la religione, ma bisogna anche tenere conto delle questioni di sicurezza. Anch'io sono musulmano, ma certe questioni non c'entrano». Ci sarà, comunque, secondo Sarkar, che di recente ha in sostanza favorito l'incontro tra l’ambasciatore del Bangladesh a Roma e il sindaco Anna Cisint, l’esigenza di spiegazioni all’interno della comunità. Le posizioni politiche tra i circa duemila residenti originari del Paese asiatico (compresi i minori) sono comunque variegate, come pure ha diverse “gradazioni” la religiosità degli appartenenti alla comunità che in città ha come punti di riferimento i centri culturali islamici di via Duca d’Aosta e via Don Fanin, ma anche alcune associazioni. Un dibattito interno e di dialogo con la realtà monfalconese, al di là delle contrapposizioni politiche.
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