Serbia, esplode il caso dei “lager” per operai che sfruttano la manodopera cinese
BELGRADO Lavoratori stranieri pagati una miseria, in un Paese dove il salario medio è già di per sé basso e costretti pure a campare in alloggi più adatti ad animali che all’uomo. È la denuncia sempre più ricorrente che sta scuotendo la Serbia, dove si rincorrono segnalazioni sulle presunte pessime condizioni in cui sarebbero costretti a vivere operai stranieri, in testa quelli con passaporto cinese. L’ultima denuncia riguarda la costruzione di una enorme fabbrica di pneumatici cinese, la “LingLong”, che sta sorgendo nei pressi di Zrenjanin, la prima del genere controllata da Pechino sul suolo europeo.
Mega-fabbrica – già nel mirino degli ecologisti per il possibile pericolo inquinamento che rappresenterebbe - che viene costruita, come succede con altre infrastrutture e opere sostenute finanziariamente dalla Cina nei Balcani, anche da manodopera cinese. Si parla, ha informato il portale Nova, di «decine di operai che dormono uno accanto all’altro in una sola stanza, in pessime condizioni igieniche», separati da teli di nylon verde appesi ai letti a castello per offrire un minimo di intimità ai lavoratori, si osserva sulle foto diffuse da fonti anonime e pubblicate dal portale. Foto che mostrano «chiaramente che si tratta di condizioni non adatte alla vita umana» e si può parlare senza ombra di dubbio di «una sorta di lager» moderno per lavoratori, ha denunciato Dusan Kokot, della locale associazione “Gradjansko preokreta”, da tempo sulle barricate contro l’impianto cinese. Già a gennaio attivisti locali avevano denunciato la nascita di «campi provvisori» per lavoratori cinesi – si parla di un paio di migliaia - da impiegare nell’erezione dell’impianto. Un caso isolato? Non sembra. A inizio anno media autorevoli come Radio Europa Libera e Balkan Insight avevano infatti diffuso foto e video simili, girati però non a Zrenjanin, ma nei pressi della miniera “Cukaru Peki”, controllata da Pechino, vicino a Bor. Anche in questo caso i protagonisti, loro malgrado, erano operai cinesi, che avevano trovato il coraggio di protestare, chiedendo «test per il coranavirus e miglioramento delle condizioni di vita», divulgando, a corredo della loro rimostranza, foto con una toilette turca «usata da 80 persone» e immagini di stanze sporche e ricolme di spazzatura, senza acqua calda. «Viviamo stipati in una stanza di dieci metri quadri, in quattro, cinque, non sappiamo chi è stato contagiato», aveva svelato un operaio rimasto anonimo, aggiungendo «ci è vietato lasciare il campo, siamo come prigionieri», mentre altri hanno si sono sfogati raccontando di lunghi turni di lavoro, paghe basse, weekend senza pause. Il problema sarebbe una «legge speciale» serba, che permette di trattare i lavoratori cinesi in Serbia applicando «per i primi cinque anni le leggi sul lavoro cinesi», spiega il sociologo Ivan Žikvov, che ha denunciato sui social la questione Zrenjanin. In pratica, Belgrado tratterebbe «i siti di costruzione cinese e le fabbriche come zone extraterritoriali, dove le ispezioni non arrivano e le denunce dei cittadini sono ignorate», sostiene Živkov.
Si tratterebbe di un «problema sistemico», che produce disuguaglianze di trattamento tra operai locali e cinesi. «La Serbia non agisce come un Paese europeo fondato sullo stato di diritto, ma come un despota asiatico», chiosa Zivkov. Parole dure, che rimandano ad altre scene ed episodi, come i manovali pakistani, cinesi e migranti impegnati nelle opere pubbliche a Belgrado. O i 40 indiani che, l’estate scorsa, erano entrati in sciopero della fame a Kraljevo, per non essere stati pagati regolarmente, una via scelta a marzo anche da decine di turchi, al lavoro per realizzare il progetto “Belgrado sull’acqua”. —
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