Sentenza choc a Belgrado: nel 2001 non ci fu golpe
BELGRADO Un folto gruppo di uomini in uniforme mimetica, baschi rossi in testa e in mano fucili automatici si ammutinano nel loro quartier generale, una delle basi di una delle unità d’élite e più temute delle forze di polizia serbe. E subito dopo bloccano strade e autostrade, a Belgrado e in Vojvodina, anche con mezzi armati.
È l’autunno del 2001, Belgrado si era liberata solo da pochi mesi dal giogo di Milosević, da poco estradato all'Aja, al potere c’era il coraggioso europeista Zoran Djindjić sulla scomoda poltrona di premier di un Paese ben lontano dall’essere stabilizzato. I militari in strada furono il preludio a un golpe, o quantomeno a una pericolosa rivolta armata di frange dei servizi di sicurezza “infedeli” al governo: lo pensarono in molti allora a Belgrado.
Ma no, si trattò solo di una innocua protesta, hanno però sentenziato giudici serbi con una discussa pronuncia giunta quasi due decenni dopo i fatti. L’assoluzione è stata emessa dal Tribunale speciale della capitale serba per sette ex alti ufficiali dell’Unità per le operazioni speciali (Jso), i famigerati “Berretti Rossi”, smobilitati nel 2003. I sette - fra i quali l’ex comandante della Jso, Milorad Ulemek detto “Legija”, che resta in carcere a scontare 40 anni per l’omicidio dell’allora premier serbo con un altro membro delle “Crvene beretke”, Zvezdan Jovanović, l’esecutore materiale – non fecero nulla di male 17 anni fa, hanno deliberato i giudici. «Non ci sono prove per dirli colpevoli di sollevazione armata», per il giudice Dragomir Jerasimović. Fu al massimo protesta attuata con metodi controversi.
La sentenza farà a lungo discutere. Secondo l’accusa infatti la Jso aveva un preciso piano, in quel novembre 2001: imporsi sul governo Djindjić, che aveva osato cooperare col Tribunale per l’ex Jugoslavia per l’estradizione di due membri dell’unità. Unità formata da Milosević nel 1996 per compiere operazioni “sporche” – Ulemek è stato condannato anche per l’omicidio dello storico rivale di Milosević, Ivan Stambolić e per il tentato omicidio del leader dell’opposizione Vuk Drasković.
Nelle fila della Jso militavano anche personaggi attivi in gruppi paramilitari operativi in Bosnia e Croazia dal 1991. L’ammutinamento del 2001 riuscì in parte, con l’esecutivo forzato a nominare personaggi vicini alla Jso ai vertici dei servizi di sicurezza. Jso che cadde definitivamente nel 2003, dopo l’omicidio di Djindjić, smantellata a causa del coinvolgimento dei suoi membri nell'assassinio.
La rivolta armata del 2001 fu il «prodromo all’attentato a Djindjić», aveva sottolineato il procuratore Miljko Radisavljević. E «non abbiamo il diritto di smettere di cercare la verità» malgrado la sentenza-choc, ha detto il leader liberaldemocratico Cedomir Jovanovic dopo la sentenza. Un giudizio che ha avuto il solo fine di cercare di dimostrare che l’omicidio Djindjić «non aveva un background politico» e collegamenti con la sollevazione del 2001, ha rincarato il parlamentare Democratico Balsa Bozović. Male che «i nostri giudici pensino che protestare in armi sia uno scherzo», ha attaccato l’ex vicepremier Zarko Korac. Ma la conseguenza più grave, ha scritto il politologo Milos Cirić, è che la sentenza chiude le porte a ogni possibilità di far luce sui mandanti politici della rivolta del 2001. E dell’assassinio Djindjić. Probabilmente gli stessi figuri, ancora nell’ombra. —
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