«Se Marco Cavallo entrasse negli ospizi rivedrebbe quell’orrore che arriva da lontano»

Lo psichiatra Dell’Acqua si affida al simbolo della liberazione sfociata nella legge 180 per “leggere” la strage straziante che si consuma oggi

TRIESTE. «E se Marco Cavallo entrasse in tutte le case di riposo?». È l’interrogativo che apre il dialogo tra Peppe Dell’Acqua e il cavallo di cartapesta diventato simbolo della liberazione che fu la legge 180. Lo psichiatra braccio destro di Franco Basaglia usa l’espediente di narrazione per affrontare stavolta il tema della strage dei vecchi causata dal coronavirus: «Notizie di morte entrano in casa da mattina a sera. Come mi capita in circostanze singolari come questa, sono andato da Marco Cavallo».

E Marco Cavallo ne può parlare, spiega Dell’Acqua, «perché è nato nel manicomio, ha visto i vecchi che venivano portati lì, sa quello che succedeva». Un’indifferenza e un abbandono della popolazione anziana che ha origine in Lombardia, uno dei passaggi in cui si mettono a confronto «le parole umanissime della riforma sanitaria del 1978: vicinanza, equità, libertà, dignità», quand’era ministro Tina Anselmi, «la giovane partigiana Gabriella», con «l’eccellente fallimento del sistema sanitario, ospedale e privato al centro, in alcune regioni più che in altre».

E dunque «l’orrore viene da lontano, da politiche scellerate che hanno costretto in istituto, sotto i nostri occhi indifferenti, più di 300 mila persone». Allora, prosegue il dialogo, «noi giovani scoprivamo che la persona è sempre la sua storia, che non si può vivere gli uni senza gli altri e che ognuno di noi, anche quando scambia un orologio per una macchinetta del caffè, una penna per una forchetta, una saponetta per un bignè, esprime il desiderio di continuare a vivere. Insomma, di esserci, nessuno escluso. Anche quando racconto sempre la stessa storia, quando per mezza giornata cerco gli occhiali e non li trovo perché li avevo sul naso, quando non sono più capace di farmi nemmeno un caffè, o quando non trovo la strada per tornare a casa e mi perdo e ho paura…e quando, oh mio Dio, mi è scappata…».

E continua, Dell’Acqua, facendo dire a Marco Cavallo di come a Trieste si è avuta dimostrazione che non restano solo gli istituti e che la vita delle persone, vecchi e malati di Alzheimer, può comunque migliorare: «Siamo andati in giro per i distretti, nei cortili delle case popolari a fare festa quando sono nate le microaree. Sono andato in corteo con le belle bandiere, i ragazzi dei ricreatori, i canti, i girotondi e le torte delle vecchie e simpatiche signore di Ponziana che hanno messo su una scuola di ballo e si sono esibite in piazza. Microaree, mi dicevano i giovani operatori, è un progetto per fare comunità, per fare salute, per affrontare le diseguaglianze, per sentirci noi in un bel sogno di futuro.

Facciamo di tutto, mi hanno detto, perché specie i più vecchi e le vecchie signore, i più malandati, i più scontrosi possano restare a casa magari con la badante della cooperativa, con l’aiuto dell’assistente sociale del comune, magari col pranzo quotidiano a domicilio, con la compagnia di un giovane del servizio civile, con le signore della parrocchia…È una sconfitta per noi quando dobbiamo portare qualcuno in istituto».

E insomma, «le persone che vivono la loro faticosa diversità chiedono di non essere catalogati “non autosufficienti” e archiviati. Di non essere aiutati, riluttanti e straziati, a salire le scale dell’istituto ed essere invece sorretti per resistere fin tanto che è possibile. Sempre più, essere vecchi, specie quando la vecchiaia è dolorosa, piena di acciacchi, di solitudine, di miseria finisce per essere una condizione che non prevede più che ci sia vita nella tua vita, ma che tragicamente la tua vita è finita, scomparsa dentro una parola. Eh sì, tu lo sai Peppe…una cura da cavallo, ci vorrebbe!». 
 

Riproduzione riservata © Il Piccolo