Se l’editing genetico ci sfugge di mano avremo bambini disegnati a tavolino

Mauro Giacca
Mauro Giacca
Mauro Giacca

TRIESTE Si chiama “analisi genetica pre-impianto” (preimplantation genetic testing, PGT) ed è ormai diventata un’analisi di routine in tutto il mondo per le coppie con problemi di fertilità e le famiglie in cui si trasmettono malattie ereditarie. Serve a fornire informazioni sulla salute genetica di un embrione ottenuto con la fecondazione in vitro prima che questo venga impiantato nella madre. In Inghilterra, è regolata da una Authority dedicata istituita dal governo, e da qualche anno è legale anche in Italia grazie ad una sentenza della Corte Costituzionale del 2015. Nella sua forma più sofisticata, la PGT può essere eseguita su embrioni allo stadio di soltanto 8 cellule a 2-3 giorni dalla fecondazione in vitro. Con una pipetta, il genetista letteralmente succhia via da questi embrioni una singola cellula, che viene utilizzata per le analisi. Più comunemente, l’analisi viene fatta un po’ più tardi, dopo 4-5 giorni dalla fecondazione, quando l’embrione ha già raggiunto uno stadio con 100-200 cellule, di cui alcune sulla superficie esterna sono destinate a formare la placenta e possono essere rimosse con una minuscola biopsia.

La PGT è nata in Inghilterra nel 1990, e utilizzava le tecniche genetiche disponibili in quel momento per l’analisi del numero e della struttura dei cromosomi. Gli studi hanno subito rivelato che quello delle anomalie cromosomiche è un problema di straordinaria rilevanza per la specie umana. Più di due terzi delle gravidanze (anche quelle naturali) non progrediscono proprio a causa di un’anomalia del numero dei cromosomi.

Alcune di queste anomalie, purtroppo, sono però compatibili con la nascita (quelle più frequenti sono le trisomie dei cromosomi 21, che porta alla sindrome di Down, 13 e 18). E queste anomalie aumentano in maniera esponenziale con l’età della madre. Il 30% degli embrioni generati da una donna di 36 anni ha alterazioni cromosomiche, e la frequenza di queste cresce dello 0.7% per mese negli anni successivi. Da qui lo straordinario progresso offerto dalla PGT nel poter selezionare gli embrioni che non presentano anomalie prima dell’impianto, in alternativa ad un aborto terapeutico in tempi avanzati di gravidanza.

Le tecnologie sono poi progredite. All’inizio negli anni ’90 si riusciva a guardare soltanto 9 cromosomi; poi progressivamente tutti 23. Dal 2014 si è anche riusciti a sequenziare il DNA, e quindi a studiare singoli geni. Nel frattempo, il costo del sequenziamento si è drasticamente abbassato: il Progetto Genoma Umano che ha portato alla prima sequenza era durato 10 anni ed era costato 1 miliardo di dollari; ora è possibile sequenziare l’intero genoma in un giorno con 500 dollari. Questo avanzamento tecnologico consente di cercare mutazioni in specifici geni anche a partire da una singola cellula. Se c’è il sospetto di una malattia genetica di cui i genitori sono portatori sani, viene prima sequenziato il DNA di questi. Nel caso vengano trovate mutazioni nello stesso gene sia nel padre che nella madre, dai genitori vengono prodotti una serie di embrioni (tipicamente 8), in ciascuno dei quali viene ricercata la presenza di queste mutazioni. Dal momento che ogni embrione eredita solo uno dei due cromosomi da ciascun genitore, gli embrioni in cui entrambi i cromosomi portano il difetto genetico vengono scartati mentre gli altri hanno luce verde per l’impianto. Sono più di 600 le malattie per cui oggi può essere eseguito questo screening.

Ma se il sequenziamento del DNA ha aperto possibilità esaltanti per diminuire la nascita di bambini con difetti genetici, ha anche spalancato voragini in termini di etica. E se invece di studiare le mutazioni che causano le malattie valutassimo i geni che determinano l’aspetto, le prestazioni fisiche, il colore degli occhi, il carattere, magari l’intelligenza, e quindi selezionassimo gli embrioni

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