Se la regista è donna le storie private diventano universali
di CALLISTO COSULICH
Israele dei nostri giorni. Joseph il tipico ragazzo del Duemila, che si pavoneggia suonando il rock per fare colpo sulle sue coetanee. Tuttavia, quando viene chiamato alla visita per il servizio di leva, ha la sorpresa di scoprire che il suo sangue non è compatibile con quello dei genitori. I suoi genitori, angosciati di fronte al suo smarrimento, scoprono che alla nascita, avvenuta sotto un bombardamento, nella confusione le infermiere della clinica lo hanno scambiato con un neonato palestinese dei territori occupati della Cisgiordania. Anche gli altri genitori, immediatamente avvertiti dell’incidente, scoprono con altrettanta angoscia di avere allevato un figlio non loro. Per giunta di sangue israeliano.
È l’incipt del film “Il figlio dell’altra”, un film che riesce nell’impresa di narrare una doppia stupenda vicenda privata (cosa prova una coppia di genitori nello scoprire di avere allevato per sbaglio e amato un figlio non loro?) e d’inquadrarla in uno scenario geopolitico che più drammatico e irrisolvibile non si riesce a immaginare.
È il modo migliore per consentire agli spettatori di toccare tale scenario con mano, evitando lo scoglio della sentenziosità didascalica, che vizia tanti film, pur armati delle migliori intenzioni. Alla splendida riuscita concorre il fatto d’essere un film impensabile se non concepito e realizzato da una donna. Nella fattispecie da più donne, poiché, al nome della regista Lorraine Lévy, è doveroso aggiungere quelli di Noam Fitoussi, cui si deve il soggetto originale, e di Nathalie Saugeon, la sceneggiatrice che ha partecipato alla impresa insieme alla Lévy e alla Fitoussi.
Il film smentisce un altro assioma: che il cinema, per essere valido, non può prescindere dall’humus culturale della nazione di cui è ambientato e che partecipa alla sua produzione. Ebbene, sarà per la particolare situazione in cui versa Israele, ma “Il figlio dell’altra” sul piano anagrafico risulta francese. D’israeliano c’è solo Itai Tamir, il produttore esecutivo, mentre il cast ha una tipica impronta internazionale.
Quanto alla regista, questo è il suo terzo film e il primo a giungere sui nostri schermi. In precedenza è stata pure autrice e regista teatrale. La Lévy si professa atea; ma non può dimenticare che gran parte della sua famiglia è stata sterminata in un lager. Per girare “Il figlio dell’altra” ha eletto suoi “padri spirituali” due scrittori: l’algerino Yasmina Khadra e l’isreaeliano Amos Oz. Afferma anche che nel suo film la donna rappresenta «il futuro dell’uomo» nel senso che, quando le donne si alleano, possono spingere gli uomini a essere migliori. È quanto esattamente accade nel suo film, stando alle diverse reazioni delle madri e dei padri quando apprendono di avere allevato i “figli dell’altra”.
Vedendo il film della Lévy, ho pensato anche a “La guerra è dichiarata”, lo struggente film autobiografico dell’attrice-regista Valérie Donzelli, che ti regala le stesse emozioni, quando essa scopre che il suo figlioletto è affetto da un tumore al cervello e ti regala momenti di autentico strazio per il modo straordinariamente comunicativo di mettersi fisicamente a nudo anche con le lacrime e le urla di disperazione.
Notevole pure il fatto che entrambi i film hanno un finale in certo qual modo positivo: il figlio di Valérie riesce comunque a sopravvivere, mentre in “Il figlio dell’altra” i due ragazzini, quando vengono a conoscersi, non nutrono sentimenti di odio, bensì aspirano a una vita normale e trovano anche il modo di aiutarsi a vicenda nei momenti di pericolo.
È un periodo molto felice per il cinema coniugato al femminile. Gli esempi si stanno moltiplicando: “Benvenuti a Sarajevo” sui postumi della guerra in Bosnia, che vanta tra l’altro una straordinaria attrice protagonista; “Venti settembre” di Giovanna Gagliardo, che svaria tra documentario e finzione, tra racconto e riassunto di racconto, come accadeva nel primo episodio di Al di là delle nuvole, il film che Antonioni girò nonostante le sue ultime gravi condizioni fisiche.
Poscritto. Non ho aggiunto alla lista “Love is all you need” della danese Susanne Bier. Come Haneke, anche la Bier è una prediletta dal cinema internazionale. Ogni suo film se ne torna a casa con un premio prestigioso. Ora si cimenta per la prima volta con la commedia romantica.
A tale scopo ha trovato un coproduttore italiano (Lionello Cerri della Lumiére & Co.) e ha girato gran parte del film nei luoghi più invitanti della splendida costa sorrentina, affrontando coraggiosamente il rischio delle più trite banalità, senza prendere le precauzioni che in questi casi assumeva il geniale Rohmer (basti pensare a “Il raggio verde”, meritato “Leone d’Oro” alla Mostra del 1986). Ma il risultato m’è apparso sconcertante, come se le immagini smentissero il contenuto piuttosto aspro della vicenda.
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