Scuola e pandemia: un’occasione perduta

Si sta correndo il rischio di “sprecare la crisi”: si sarebbe potuto adoperare la pausa forzata per rilanciare il suo senso sociale. O cambiare gli orari
La vice preside dell'istituto comprensivo ''Daniele Manin'', Rita Arseni, mostra una possibile sistemazione di alcuni banchi singoli nella sede della scuola media in via dell'Olmata, Roma 6 agosto 2020. ANSA/FABIO FRUSTACI
La vice preside dell'istituto comprensivo ''Daniele Manin'', Rita Arseni, mostra una possibile sistemazione di alcuni banchi singoli nella sede della scuola media in via dell'Olmata, Roma 6 agosto 2020. ANSA/FABIO FRUSTACI

TRIESTE È un fatto ormai acclarato che la ripresa delle scuole a settembre costituisca il decisivo test per la riapertura sociale dopo il blocco provocato dalla pandemia. Ed è anche di comune dominio che si stia correndo il rischio di “sprecare la crisi”.

Varrebbe la pena di capire bene cosa significa qui il termine “spreco”, che evidentemente non corrisponde a un buttare via risorse materiali. Non si tratta di risparmiare, anzi la scuola chiederebbe l’utilizzo di una maggiore quantità di risorse per le strutture e il personale docente. L’espressione “Non sprecate la crisi” è stata pronunciata dal Pontefice (!) e ripetuta dai più avveduti dei nostri governanti, proprio in questi giorni dal ministro della salute.

Sembra un paradosso, ma ciò descrive linearmente il processo che abbiamo attraversato: una scuola messa in ginocchio dal lockdown e il ricorso alla didattica a distanza, avvenuto nella fretta e nell’impreparazione ma che ha anche lasciato tracce interessanti. Una lunga pausa che in definitiva ha permesso a tutti di prendere atto della situazione deficitaria della scuola e di ragionarci su. Un momento utile per rendersi conto non solo di come far fronte al distanziamento spaziale da realizzare a settembre, ma anche del significato e dell’importanza determinante dell’istituzione stessa nel suo insieme.

Invece, la riflessione sul senso di una scuola come la nostra, già alquanto malata e dunque da risollevare dai suoi acciacchi, è risultata quasi inoperosa mentre tutte le energie sono state rivolte, pur con fatica e non senza esitazioni, all’assetto degli spazi e ai problemi connessi: l’esempio dei banchi monoposto è indicativo. Qualcuno (Paolo Gurisatti mercoledì su queste pagine) ha scritto che sarebbe il momento di educare gli studenti ai cambiamenti in corso, investendo “sulla cultura delle precauzioni personali”, cioè trasformando il distanziamento da semplice obbligo a pratica culturale condivisa. Sarebbe un inizio virtuoso, certamente, per tentare di rovesciare la crisi in un’opportunità.

Per non sprecare l’opportunità complessiva che potrebbe venire offerta dal passaggio ormai imminente, sarebbe però necessario interrogarsi sulla funzione di civiltà che la scuola dovrebbe svolgere, cosa che non è avvenuta e che non sta accadendo. Perciò la parola spreco, purtroppo, risulta attinente.

Abbiamo avuto tempo riflettere, qualcuno ci ha provato e ha fatto anche proposte, ma l’orizzonte si è chiuso davanti alle incombenze urgenti, comprensibilmente, tuttavia lasciando in tutti, dirigenti e insegnanti, la sensazione amara di un’occasione perduta. Si potevano almeno lanciare segnali concreti da valorizzare in seguito, nulla però si è mosso.

Si sarebbe potuto adoperare la pausa forzata per alzare il tiro e rilanciare il senso sociale e civile che la scuola riveste al di là del dibattito stesso tra didattica a distanza e didattica in presenza, o meglio andando oltre la ristrettezza specifica di esso, perché è evidente che, se la scuola si identifica con la più importante agenzia di socialità che riguarda milioni di ragazzi, allora essa rappresenta un salto di vita individuale prima e ancor più di un laboratorio di acculturamento e di competenze specifiche.

Avremmo dovuto partire da questo presupposto, cioè cosa fare per garantire e arricchire quel “salto di vita” che resta unico nell’esperienza di ciascuno di noi: guardare ogni aspetto, ogni dettaglio, tenendo fermo simile presupposto, non lasciandolo nell’angolo come invece stiamo facendo. Salto di vita che vuol dire per lo studente uscita dal recinto famigliare, qualunque esso sia, per scoprire gli “altri”, conoscerli, mescolarsi positivamente con loro, mettersi alla prova di un’esperienza, fatta di luci e anche di ombre, che resterà unica nella vita di ognuno.

Moltissimi insegnanti – una categoria che dovremmo apprezzare di più e dunque rivalutare – sanno perfettamente quanto sia delicato il ruolo che esercitano e in che cosa consista il salto di cui ho appena parlato. Nessuno di loro accetta di essere trattato come una pedina da spostare da una casella a un’altra. Poiché conoscono da dove è opportuno guardare l’esperienza della scuola, avrebbero molto da dire sulle trasformazioni che sarebbero oggi necessarie.

Magari su aspetti che vengono di solito tralasciati come la questione dell’orario scolastico che sembra intoccabile (magari solo rivedibile per cause allogene) mentre è una delle zone più in penombra della scuola, come se fosse ovvio che si cominci alle otto di mattina e si termini, permettendo solo brevi intervalli agli studenti, nel primo pomeriggio: senza discutere dell’attenzione che diminuisce o dell’eccessiva permanenza in classe. —

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