Scattano le sanzioni di Washington contro il serbo- bosniaco Dodik
BELGRADO La storia si ripete. Mentre l’Europa rimane spesso inerte a guardare, limitandosi a solenni, severi ma sterili ammonimenti, gli Stati Uniti si dimostrano assai più concreti, in politica estera. E i Balcani – Bosnia in testa – non fanno eccezione. Bosnia dove nella sera del 5 gennaio è esplosa una notizia-bomba. È quella delle sanzioni decise dall’amministrazione Biden contro Milorad Dodik, leader nazionalista serbo-bosniaco e attualmente membro serbo della presidenza tripartita della Bosnia-Erzegovina.
Dodik è noto soprattutto come il temerario “architetto” dell’attuale gravissima crisi politica che negli ultimi mesi ha destabilizzato il Paese balcanico, facendo temere a molti una deriva inarrestabile, fino alla disgregazione o al ritorno alle armi nel cuore dei Balcani. Architetto che va per questo punito, assieme ad Alternativna Televizija (Atn), un potente network televisivo che lo sostiene, ha deciso Washington.
Le sanzioni, si legge sul sito del Dipartimento del Tesoro americano, comportano il «blocco» di tutte le eventuali proprietà o fondi detenuti totalmente o parzialmente da Dodik e dai suoi sodali sul suolo Usa, compreso il trasferimento di denaro, anche dagli Usa verso la Bosnia, che coinvolga le persone ora nel mirino dell’amministrazione Biden. Ma si va oltre. Dodik – ma anche altri due leader locali, tra cui Milan Tegeltija, suo stretto collaboratore – si vedranno negati i visti per entrare negli Usa, ha reso noto il segretario di Stato Usa, Antony Blinken, che ha motivato la misura come via necessaria ad arginare le pretese di Dodik e a difendere «la sovranità e l’integrità territoriale» della Bosnia.
La punizione – speculare a quelle inflitte a Dodik già ai tempi dell’amministrazione Obama - è giustificata da gravi motivi, ha assicurato Washington. Dodik, infatti, ha «minato la stabilità dei Balcani spingendo per attribuirsi competenze statali» su sicurezza, tassazione e persino forze armate – in rappresaglia alla legge che vieta il negazionismo su Srebrenica - ha argomentato il Dipartimento del Tesoro, aggiungendo che il leader serbo-bosniaco si sarebbe pure macchiato di altri presunti crimini. Avrebbe infatti «usato la sua posizione ufficiale per accumulare ricchezze personali attraverso» svariate «forme di corruzione». E le sparate ultranazionalistiche, l’evocazione della secessione altro non sarebbero state che un escamotage propagandistico per «distrarre l’attenzione dalle sue attività corruttive».
Un quadro assai poco dignitoso, per un leader che si presenta da decenni come il paladino dei serbi in Bosnia. Ma Dodik altro non sarebbe che un politico affamato di potere e ricchezze. Le sue «attività di corruzione destabilizzanti e i tentativi di smantellare gli accordi di pace di Dayton, motivati dal suo interesse personale, rappresentano una minaccia alla stabilità della Bosnia-Erzegovina e dell’intera regione», il commento di Brian Nelson, sottosegretario del Tesoro Usa per l’intelligence finanziaria e sul terrorismo.
Il pugno duro americano tuttavia sembra non aver fatto cambiare rotta a Dodik, almeno nei toni. Se gli Usa «pensano di mettermi in riga in questo modo si sbagliano di grosso», ha affermato ieri a caldo, criticando Washington pure per averlo punito poco prima «del Natale ortodosso» e sottolineando di non essere stato indagato per corruzione «da nessuna parte nel mondo». E rimane ora da vedere – uno scenario ancora del tutto confuso – se le sanzioni americane convinceranno Dodik a fare marcia indietro definitiva sul ritiro della sua Republika Srpska dalle istituzioni centrali bosniache. —
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