Scarpe da bambino, coperte e rifiuti: il Silos d’inverno si riempie di migranti

Nel vecchio capannone abbandonato trovano riparo decine di persone che vivono tra spazzatura ed escrementi. Molti sono solo di passaggio 
Un'immagine fortemente simbolica del Silos di Trieste (Lasorte)
Un'immagine fortemente simbolica del Silos di Trieste (Lasorte)

TRIESTE «We born with guns, we die with guns», hanno scritto mani sfinite su un muro. La città fantasma è tornata a popolarsi di volti stanchi e corpi indeboliti. Riecco il Silos, riecco i migranti. Afghani, pachistani e iracheni che trovano riparo tra le capanne. Baracche di stracci, coperte e legno messe in piedi con grate di ferro racimolate qua e là nei cantieri accanto e infilate nel fango duro del terreno. Le raffiche di bora potrebbero spazzarle da un momento all’altro.

Qui mangiano e dormono non solo giovani di vent’anni, ma intere famiglie: alcune sono soltanto di passaggio, altre attendono un posto nelle strutture del sistema di accoglienza cittadino.

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Trieste, per tutti, è l’ultima tappa dei Balcani, dopo settimane e settimane di cammino nel gelo. I profughi in transito lungo la rotta provano a varcare i confini che incontrano nel loro viaggio. Tentativi che spesso culminano nei violenti respingimenti alla frontiera perpetrati dalla polizia croata, come stanno documentando giornali e tv di tutta Europa. In Bosnia è in corso un’emergenza umanitaria: la Caritas italiana parla di circa ottomila migranti in tutto il Paese; di questi, cinquemila risultano accolti nei centri di transito e nei campi, ma almeno altri tremila dormono in edifici abbandonati, sistemazioni improvvisate o all’addiaccio.



Chi approda a Trieste, chi ce la fa, ha visto e vissuto tutto questo. Tra le famiglie che si rifugiano al Silos ci sono anche bambini. Le tracce della presenza di minori sono visibili ovunque: scarpette, giocattoli, piccoli giubbini, un triciclo.

Quante persone vivono in questo vecchio edificio abbandonato, al freddo e in condizioni igieniche disumane? Poche? Tante? Difficile dirlo. Ne abbiamo contate sette, nel primo pomeriggio di ieri, che facevano la spola tra il Silos e piazza Libertà. Ma a vedere la quantità di vestiti, zaini, l’impressione è che di notte questo luogo sia occupato da molti.

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L'ambulatorio a cielo aperto in piazza Libertà


Quel che è certo è che al Silos, settimana dopo settimana, mese dopo mese, stanno transitando decine e decine di profughi. Un pezzo di umanità che Trieste non vede. Ma è qui, nel cuore della città: di fianco alla Stazione ferroviaria, dietro al Porto vecchio, a cinque minuti da Molo Audace e da piazza Unità.

Tra i rifugiati che incontriamo nessuno ha voglia di parlare. Appena si sentono osservati abbassano lo sguardo e tirano dritto, intabarrati in sciarpe e giacconi. Ma il Silos parla per loro. Nelle capanne di fortuna si scorgono sacchi a pelo e coperte sudice. Accanto pentole piene d’acqua e avanzi di cibo. Escrementi e piccioni morti. I rifugiati si scaldano accendendo fuochi con i pezzi di legno e altro materiale che prendono nei depositi ferroviari.

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I giacigli dei migranti all'interno del Silos di Trieste


La spazzatura è dappertutto. Cumuli di lattine, scatole di fagioli, bottiglie di plastica e vetro. E poi scarpe in quantità impressionante. Scarpe per adulti e da bambino. Borse, e ancora zaini. Il terreno è punteggiato di coperte termiche, quelle di emergenza che vengono date dalle associazioni umanitarie. Il Silos ne è pieno. Segno che queste persone sono passate dai campi profughi dei Balcani.

Per entrare qui è sufficiente infilarsi dal cancello secondario che dà sul retro. Gli altri pertugi che i profughi si erano ricavati nei mesi scorsi, distruggendo la rete che circonda la struttura, sono stati riparati.

Sulle pareti degli stanzoni sovrastati dalle arcate di pietra i migranti hanno segnato le date del loro arrivo a Trieste: 2015, 2017, 2020.

La città fantasma del Silos si raggiunge con il passaparola. Chiunque trova una baracca, un sacco a pelo e una coperta. Chi ha vissuto atrocità, chi ha camminato nel gelo, non teme di dormire nel freddo e tra la spazzatura. —

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