Scarpa e la strana notte di Giacomo Leopardi dentro la casa di un dj

di Alessandro Mezzena Lona Notte prima dell’esame di maturità. Andrea non ce la fa proprio a concentrarsi sulle poesie di Leopardi. Non è un secchione, anzi, lui sogna di fare il dj, sta con una...
Di Alessandro Mezzena Lona
BRUNI TRIESTE 11 04 06 TIZIANO SCARPA
BRUNI TRIESTE 11 04 06 TIZIANO SCARPA

di Alessandro Mezzena Lona

Notte prima dell’esame di maturità. Andrea non ce la fa proprio a concentrarsi sulle poesie di Leopardi. Non è un secchione, anzi, lui sogna di fare il dj, sta con una ragazza che vorrebbe cantare. Quasi è rassegnato, lo bocceranno, andrà a finire male. Meglio lasciarsi scivolare nel sonno, un sonno inquieto, dal quale emerge una figura arcana. Eppure familiare. Un giovane, come lui, che però sembra vecchissimo. E che parla un italiano strano, difficile da capire. Quel ragazzo di nome fa Giacomo, è arrivato lì come se fosse salito a bordo della macchina del tempo.

Comincia così “L’infinito”, il testo che lo scrittore veneziano Tizianmo Scarpa, Premio Strega per il romanzo “Stabat mater”, ha scritto per il teatro. Portato in scena con la regia di Arturo Cirillo, che recita insieme ai giovani Andrea Tonin e Margherita Mannino, prodotto dallo Stabile del Veneto, dopo una fortunata tournée anche all’interno delle scuole, approda domani sera, alle 20.30, sul palcoscenico del Politeama Rossetti di Trieste. Le repliche proseguiranno, poi, fino a domenica. A firmare le è Dario Gessati, i costumi Gianluca Falaschi, le musiche Francesco De Melis & Intrinsic. Le luci sono di Pasquale Mari.

«Per Leopardi ho sempre avuto una totale, immensa venerazione - spiega Tiziano Scarpa, che ha debuttato nel mondo del teatro nel 1993 scrivendo “Madrigale” -. E tante volte l’ho immaginato, potrei dire quasi l’ho voluto sentire al mio fianco, mentre analizzava attentamente e giudicava il nostro tempo. Non bisogna mai dimenticare che questo grande poeta ha scritto “L’infinito” quando aveva 21 anni. E, tra l’altro, proprio nell’estate del 1919, mentre stava ultimando quei versi altissimi, aveva progettato di scappare di casa. Il problema è che gli serviva un passaporto per allontanarsi da Recanati, per andare a Roma. Il problema è che il suo amico spedì per sbaglio il docunmento al padre dello scrittore, il conte Monaldo, che a quel punto scoprì tutto».

Eppure, nei versi di quella poesia sublime non c’è traccia della rabbia di Leopardi. Non c’è il risentimento nei confronti della famiglia, non c’è livore contro la prigione del natio borgo selvaggio. «Chi legge si aspetterebbe di scoprire un poeta frustrato. Pieno di risentimento contro la famiglia, contro Recanati. Al contrario, c’è una dichiarazione d’amore per quella collina, per il paesaggio che si apre tutto attorno. Diventa un bellissimo esempio di come un autore si possa distaccare, quando scrive, dalla propria vita, dal presente. E poi ci fornisce anche un grande insegnamento esistenziale: nonostante lui, ormai, odiasse vivere lì, è riuscito a ritrovare tra le parole una sintonia forte con la terra che l’ha visto nascere e crescere».

Da qui, da questa grande lezione, è nato l’idea di Tiziano Scarpa. «Immaginare come un Leopardi possa confrontarsi con un suo coetaneo d’oggi. Un ripetente, Andrea, non un cervellone. Uno che sogna di essere un dj, mentre la sua ragazza Cristina vorrebbe cantare. Certo, quelle sono illusioni minime rispetto alle idee, ai versi che Leopardi ci ha lasciato. Ma il poeta stesso, il mio personaggio in scena, ammette che senza le illusioni il mondo crollerebbe».

L’incontro di Leopardi con un ragazzo del terzo millennio, ovviamente, ha la forza di un elettroshock. «Quasi sempre gli studenti sbuffano quando devono leggere i classici. Fanno fatica, non li capiscono. A volte, però, scatta una scintilla. Avviene un incontro tra mondi in apparenza lontanissimi. E io ho voluto raccontare proprio uno di quei contatti. Forse sono stato ottimista perché ho immaginato che da questo incontro tutti e due usciranno fortemente cambiati».

Tiziano Scarpa non si improvvisa certo scrittore per il teatro. «Sono vent’anni tondi che scrivo per il teatro. Le mie primissime cose sono andate in scena quando non avevo ancora pubblicato romanzi. Devo dire che c’è una bella differenza tra i due mondi. Perché il mio Leopardi dell’Infinito ha trovato una sua forza, una sua giusta dimensione in scena, soprattutto grazie all’ottimo lavoro del regista Arturo Cirillo. Ha girato molto nelle scuole. E ho scoperto che i ragazzi invece di rumoreggiare, di sbadigliare, sono sbigottiti perché si divertono. Ridono, partecipano. Lo spettacolo ha ritmo, comunica gioia e fa pensare».

Non tutte le storie vengono per trasformarsi in parole sulla carta. «In questo caso io mostro il fantasma di Leopardi. Sulla pagina non funzionerebbe. In scena è credibile perché lo vedi. Anzi, Andrea può vederlo, Cristina no. Anche se, in realtà, lei forse fa solo finta di non riuscire a scorgerlo. Certo, qualcuno potrebbe dirmi che tanti grandi scrittori hanno saputo raccontare nei romanzi, nei racconti, spettri che fanno paura, che sono buffi, che si innamorano. Ma questo mio “Infinito” non l’avrei mai scritto senza il teatro».

In tempi di crisi nera, uno spettacolo non può più immaginare scenografie faraoniche. Cast stellari. «Il mio testo l’ho pensato da subito con pochissimi personaggi. E pure giovani, così gli attori non costano nemmeno troppo. Anche se devo dire che Andrea Tonin e Margherita Mannino non sono certo due novellini di poco conto. Sono stati scelti dopo un lungo laboratorio di recitazione. E poi, lo Stabile del Veneto, che produce lo spettacolo, non ha badato a spese. Affidando la regia a Cirillo, che recita pure. Creando delle scenografie molto belle. Non certo con il tavolinetto e la panchina che avevo immaginato io».

Certo, oggi gli scrittori sono abituati ad accontentarsi di poco. Anche perché va di gran moda scritturare loro stessi a leggere in pubblico i testi che scrivono. «Non sarei mai in grado di recitare, di tenere la scena con un mio testo. Anzi, mi sembrerebbe un’impostura, il rubare il lavoro a chi lo sa fare. Al contrario, mi trovo molto bene quando si tratta di leggere un mio testo. Anche perché lo faccio, per dire, a casa mia con i romanzi, con le poesie degli altri che mi piacciono. Non lo intendo come un invito alla lettura in un Paese che frequenta poco i libri. È per far sentire la meraviglie delle parole».

Chiedere a Scarpa se sta lavorando è un invito a nozze. «Io scrivo sempre. E anche adesso sono impegnato su un paio di romanzi nuovi. Di solito faccio così: se mi stufo di uno passo all’altro. Come mi capitava un po’ di tempo fa quando avevo due piccoli appartamenti in affitto: uno stava a Venezia, l’altro a Milano. Era una casa divisa in due. Quando mi annoiavo, andavo dall’altra parte. Con l’illusione leopardiana che lì sarei stato meglio».

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