Santa Croce, dei treni e della biglietteria restano solo i cartelli

Compare ancora sul sito di Trenitalia, ma da oltre un decennio l’antica fermata di Santa Croce è stata cancellata dalle mappe ferroviarie. Nemmeno i volontari del Museo di Campo Marzio, ultimi difensori della memoria su rotaia di Trieste, sono in possesso della data di istituzione: si sa infatti che la fermata di Santa Croce (come quella di Miramare) non vide la luce nel 1857, anno di nascita della linea Meridionale che serve ancora i due fabbricati. Oggi una fetta dell’edificio di proprietà delle Fs è lasciata al degrado, mentre un ex ferroviere e la sua famiglia sono affittuari dell’altra.
La piccola fermata sorge in via del Pucino 26 e, seppur disti un tiro di schioppo dalla strada, si mimetizza con la natura, sapolta dell’offensiva della vegetazione. Dando le spalle a Trieste, sulla sinistra, uno sterrato di una decina di metri scende verso i binari della tratta Trieste-Aurisina. È uno spicchio di strada ferrata che le Ferrovie italiane adoperano ancora dell’immensa Meridionale, direttrice progettata da di Carlo-Carl Ritter von Ghega e che collega ancora Trieste con il cuore dell’Europa via Opicina, Lubiana e Vienna.
Sul tappeto di gramigna e foglie morte si disegna un cartello color della pece, divorato dalla ruggine, con su scritto “Alla biglietteria ferroviaria” e “Ai treni”. Una manciata di passi in direzione dell’accesso alla fermata inghiottita dall’oblio, ed ecco cartello nero - legato a una ringhiera con un filo di ferro e tenuto in piedi da due sacchi di sabbia poggiati sulla base – che sopravvive alla decapitazione della storia: “Divieto di accesso ai non viaggiatori”. A destra corrono i binari della Meridionale, il cui accesso è sprangato da una cancellata di ferro. A sinistra, comincia a delinearsi la fermata. Entrando nel giardinetto ecco l’incuria. Una parte dell’edificio è di legno, l’altra, più alta, di cemento color salmone pallido.
Sopra una porta del minuscolo fabbricato di legno in livrea bianca, leggi “Biglietteria” e “Sala d’attesa”; oggi però esse fungono da ripostiglio alla famiglia che vi abita. Dopo qualche metro, comincia la parte cementata, ma una porta sbarra quasi subito il cammino. Sbirciando oltre i vetri della guardiana nera, si intravede il vecchio ufficio movimenti: un tavolo che affonda nelle polvere, un telefono, tre sedie, quadri elettrici e orari affissi su muri. Poco più in là c’è un’insegna-fantasma ormai illeggibile. Ancora sopra, il nome della fermata: “Santa Croce di Trieste”.
«All’epoca delle vaporiere – narra Carollo - vi fermavano i treni locali della città e dei dintorni, divenuti poi i regionali moderni». Oggi, nessuno. La fermata – che si differenzia da una stazione perché è dotata solo di un doppio binario – è divenuta un monumento alla ruggine, ma ancora splendido nella sua decadenza.
Il cortiletto piega di nuovo a destra, svelando un altro regno dell’incuria: il tetto dei bagni è crollato dentro gli stessi, i quali, a loro volta, sono un nido di ragnatele. Dopo un paio di metri, il legno cede ancora il posto al cemento e comincia la fetta dell’edificio abitata dalla famiglia, unico brandello della fermata di Santa Croce non riconsegnato a madre natura.
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