Salvini e Santori le due superstar, Bonaccini promosso, flop Di Maio

ROMA. La pagella definitiva della campagna emiliana la scriveranno ovviamente gli elettori: promossi e bocciati li conosceremo dopo le undici di questa sera. Ma agli esami esiste anche il voto di ammissione e non c’è dubbio che il più alto se lo aggiudicano le due principali controparti della sfida, cioè Matteo Salvini e le Sardine. Entrambi hanno capito da subito che la partita da vincere era quella della partecipazione, la competizione per portare alle urne la destra e la sinistra che cinque anni fa disertarono in massa per noia e rassegnazione alla continuità, bloccando al 36% l’affluenza. Rovesciare il paradigma del «tanto non cambia niente» e affermare la metafora dell’Emilia come le Termopili, Waterloo, Dunkerque – la battaglia della vita – è stato il simmetrico obiettivo del Capitano e del movimento di Mattia Santori. Entrambi si sono guadagnati sul campo un rotondo 8: hanno riempito le piazze, monopolizzato il dibattito, escogitato trovate propagandistiche estreme in una politica che da un pezzo sembrava aver raschiato il fondo del cattivismo e del buonismo.

La citofonata di Salvini, innanzitutto. Mezza Italia è rimasta giustamente inorridita, ma ai suoi sostenitori è piaciuta moltissimo. Da giorni nelle chat sovraniste girano biografie inventate della famiglia presa di mira – «padre arrestato 6 volte per spaccio anche di eroina; fratello già 7 anni in carcere per rapina e spaccio; palazzo occupato abusivamente da 30 maghrebini» – associate all’invito a mobilitarsi e a votare. Dall’altra parte ha stupito e convinto la scelta di un animale muto come simbolo di resistenza civile e del silenzio come forma di lotta, in nome di una politica senza urla e offese. La sinistra profonda li ha guardati con sufficienza, ma è probabile che senza le Sardine l’elettorato Pd si sarebbe consegnato al fatalismo della sconfitta.

Al capo opposto della classifica figurano senz’altro Di Maio e Zingaretti. Un professore buono li grazierebbe col «Non classificato» – non hanno praticamente fatto niente – e uno più severo li punirebbe con un secco 4. Di Maio, che è stato uno dei sostenitori della scelta terzista dei Cinque Stelle e di una candidatura autonoma nella persona di Simone Benini, si è addirittura dimesso una settimana prima del voto, regalando al suo uomo appena un paio di incontri elettorali a Cesenatico e a Scandiano e un’apparizione al comizio di chiusura. La distanza non è stata solo fisica. I grillini hanno cancellato l’Emilia dai discorsi nei talk-show, dalle attenzioni social, persino dal Blog delle Stelle. La desistenza in favore del candidato Pd è risultata evidente, tanto valeva dichiararla con chiarezza. Quanto a Zingaretti, si capisce la riluttanza a maneggiare la questione emiliana: solo un assoluto distacco potrà consentirgli di non soccombere in caso di vittoria leghista. E tuttavia fa impressione il confronto tra i quattro comizi quotidiani di Salvini, che in Emilia ci si è praticamente trasferito, e le tre giornate (9,10 e 23 gennaio) concesse dal segretario Pd alla campagna.

Meglio i due sfidanti, entrambi partiti lenti e poi cresciuti nella competizione. Stefano Bonaccini merita un 7 per aver intuito il mood più utile alla sfida – «Si vota per la Regione, non è un referendum sul governo» – e anche per la costruzione di un nuovo brand personale che ha cancellato l’immagine del funzionario d’apparato con una barba vagamente hipster, i Ray-ban colorati, l’auto ibrida usata per gli spostamenti.

Lucia Borgonzoni aveva esordito malissimo, oscurata dall’attivismo del suo capo, sbeffeggiata per una gaffe sui confini dell’Emilia Romagna, interdetta dallo staff a partecipare ai duelli televisivi. Poi ha acquistato sicurezza, il duello lo ha fatto (anche se nella sede del Resto del Carlino, evitando la tv) e non ne è uscita male. I veleni social sparsi contro di lei negli ultimi giorni per la frequentazione giovanile del centro sociale Link e delle serate gay-friendly dell’Adrenaline l’hanno resa pure più simpatica. Anche i leghisti hanno un’anima eccentrica. Sette pure a lei.

La campagna ha avuto anche i suoi «invisibili», per ingrato destino o per scelta. Tra i primi c’è il grillino Benini, degno senz’altro di una sufficienza di incoraggiamento: ha fatto il suo dovere mentre il suo partito andava in pezzi e gli revocava ogni forma di sostegno. Fra i renitenti per calcolo svetta Matteo Renzi. Fu lo sponsor di Bonaccini nel 2014 ma in Emilia non ha presentato liste né si è speso sui palchi, e di sicuro è solleticato dalle prospettive caotiche di una sconfitta Pd. Non classificato senz’altro, per assenza all’esame.

Riproduzione riservata © Il Piccolo