«Salvate mio figlio dai pirati somali»
Adriano Bon, il papà del marinaio triestino della “Savina Caylyn”, lancia l’appello: «A bordo non hanno né cibo né acqua»

TRIESTE. «Finora siamo stati in silenzio, come ci avevano suggerito il ministero degli Esteri e la compagnia armatrice per facilitare le trattative per il rilascio ma ora, dopo mesi di stallo, non possiamo più restare a guardare». Adriano Bon, padre di Eugenio, il marittimo triestino sequestrato assieme ad altri quattro marinai italiani e 17 indiani, al telefono mantiene la stessa decorosa compostezza con la quale la famiglia aveva accolto la notizia del rapimento della “Savina Caylyn” da parte di pirati somali ma dalle pause della conversazione traspare una crescente apprensione. E forse una vena di disillusione verso le istituzioni, alle quali si era affidato fiducioso e rispettoso delle loro disposizioni impartite alle famiglie degli ostaggi.
«Per Eugenio e gli altri la situazione si sta facendo veramente drammatica - spiega il padre dell’ufficiale che il 30 aprile scorso ha compiuto da prigioniero i suoi 30 anni - sia per il trascorrere dei mesi che per l’imminente stagione estiva che laggiù segna temperature proibitive». Dopo una telefonata il 28 febbraio, padre e madre hanno parlato con Eugenio il 12 aprile. A ogni sequestrato erano stati concessi due, tre minuti al satellitare, sotto controllo di un somalo che parla italiano e monitorava i discorsi. Poi più nulla.
«Non ha potuto scendere in dettagli - racconta Adriano Bon - ma ci ha fatto capire che la loro impressione è che bisogna attendersi tempi molto lunghi per il rilascio, forse anche sei mesi. L’unica nota positiva è che finora nessuno si è ammalato ma il quadro potrebbe peggiorare rapidamente». È infatti ormai vera questione di sopravvivenza. Da ormai due mesi i marinai dipendono dai somali per il cibo e l’acqua, la cui “qualità” è facile da immaginare. «Non ha potuto raccontare cosa li fanno mangiare - aggiunge Bon - ma l’acqua, a esempio, è fornita in taniche ed è razionata. Lavarsi a esempio ora è quasi impossibile e le temperature stanno per salire sopra i 40 gradi. Sono alloggiati in tende sulla coperta della nave, ancorata sulla costa tra Mogadisico e Capo Guardafui, a Nord, in un villaggio di pescatori convertitisi alla pirateria».
A vigilare su italiani e indiani circa 40 banditi, pesantemente armati. Li scortano sempre anche quando i marittimi vengono lasciati entrare nella nave la manutenzione ordinaria. Ma anche da questo punto di vista giungono cattive notizie: sembra che anche il carburante, per le operazioni di routine e l’auspicato ritorno a casa, stia finendo. «La Farnesina - si sfoga il padre del triestino che in mare aveva ricevuto i gradi di primo ufficiale - dapprima ci ha assistito molto egregiamente e le telefonate erano costanti, come quelle dell’armatore D’Amato ma con il passare dei mesi il telefono è rimasto sempre più silenzioso. Non sappiamo cosa pensare ma non possiamo restare fermi. Immaginare che, se tutto va bene, ci vorranno altri sei mesi ci fa stare male. Pensate in quali condizioni psicologiche, oltre che fisiche, si potrebbero trovare questi ragazzi al rilascio, dopo quasi un anno di sequestro, e in condizioni così dure». A Procida, comune che “vanta” ben quattro marittimi di navi dei due fratelli armatori d’Amato catturati dai somali, il sindaco ha allertato i parlamentari della zona e organizzato una fiaccolata, raccogliendo 8.500 firme da inviare al Presidente Napolitano. Adriano e la moglie, con la discrezione che li contraddistingue, solo con il passaparola ne hanno in mano, dopo cinque giorni, 2.800. Ma attendono un segnale dalle istituzioni.
©RIPRODUZIONE RISERVATA
TRIESTE. «Finora siamo stati in silenzio, come ci avevano suggerito il ministero degli Esteri e la compagnia armatrice per facilitare le trattative per il rilascio ma ora, dopo mesi di stallo, non possiamo più restare a guardare». Adriano Bon, padre di Eugenio, il marittimo triestino sequestrato assieme ad altri quattro marinai italiani e 17 indiani, al telefono mantiene la stessa decorosa compostezza con la quale la famiglia aveva accolto la notizia del rapimento della “Savina Caylyn” da parte di pirati somali ma dalle pause della conversazione traspare una crescente apprensione. E forse una vena di disillusione verso le istituzioni, alle quali si era affidato fiducioso e rispettoso delle loro disposizioni impartite alle famiglie degli ostaggi.
«Per Eugenio e gli altri la situazione si sta facendo veramente drammatica - spiega il padre dell’ufficiale che il 30 aprile scorso ha compiuto da prigioniero i suoi 30 anni - sia per il trascorrere dei mesi che per l’imminente stagione estiva che laggiù segna temperature proibitive». Dopo una telefonata il 28 febbraio, padre e madre hanno parlato con Eugenio il 12 aprile. A ogni sequestrato erano stati concessi due, tre minuti al satellitare, sotto controllo di un somalo che parla italiano e monitorava i discorsi. Poi più nulla.
«Non ha potuto scendere in dettagli - racconta Adriano Bon - ma ci ha fatto capire che la loro impressione è che bisogna attendersi tempi molto lunghi per il rilascio, forse anche sei mesi. L’unica nota positiva è che finora nessuno si è ammalato ma il quadro potrebbe peggiorare rapidamente». È infatti ormai vera questione di sopravvivenza. Da ormai due mesi i marinai dipendono dai somali per il cibo e l’acqua, la cui “qualità” è facile da immaginare. «Non ha potuto raccontare cosa li fanno mangiare - aggiunge Bon - ma l’acqua, a esempio, è fornita in taniche ed è razionata. Lavarsi a esempio ora è quasi impossibile e le temperature stanno per salire sopra i 40 gradi. Sono alloggiati in tende sulla coperta della nave, ancorata sulla costa tra Mogadisico e Capo Guardafui, a Nord, in un villaggio di pescatori convertitisi alla pirateria».
A vigilare su italiani e indiani circa 40 banditi, pesantemente armati. Li scortano sempre anche quando i marittimi vengono lasciati entrare nella nave la manutenzione ordinaria. Ma anche da questo punto di vista giungono cattive notizie: sembra che anche il carburante, per le operazioni di routine e l’auspicato ritorno a casa, stia finendo. «La Farnesina - si sfoga il padre del triestino che in mare aveva ricevuto i gradi di primo ufficiale - dapprima ci ha assistito molto egregiamente e le telefonate erano costanti, come quelle dell’armatore D’Amato ma con il passare dei mesi il telefono è rimasto sempre più silenzioso. Non sappiamo cosa pensare ma non possiamo restare fermi. Immaginare che, se tutto va bene, ci vorranno altri sei mesi ci fa stare male. Pensate in quali condizioni psicologiche, oltre che fisiche, si potrebbero trovare questi ragazzi al rilascio, dopo quasi un anno di sequestro, e in condizioni così dure». A Procida, comune che “vanta” ben quattro marittimi di navi dei due fratelli armatori d’Amato catturati dai somali, il sindaco ha allertato i parlamentari della zona e organizzato una fiaccolata, raccogliendo 8.500 firme da inviare al Presidente Napolitano. Adriano e la moglie, con la discrezione che li contraddistingue, solo con il passaparola ne hanno in mano, dopo cinque giorni, 2.800. Ma attendono un segnale dalle istituzioni.
©RIPRODUZIONE RISERVATA
TRIESTE. «Finora siamo stati in silenzio, come ci avevano suggerito il ministero degli Esteri e la compagnia armatrice per facilitare le trattative per il rilascio ma ora, dopo mesi di stallo, non possiamo più restare a guardare». Adriano Bon, padre di Eugenio, il marittimo triestino sequestrato assieme ad altri quattro marinai italiani e 17 indiani, al telefono mantiene la stessa decorosa compostezza con la quale la famiglia aveva accolto la notizia del rapimento della “Savina Caylyn” da parte di pirati somali ma dalle pause della conversazione traspare una crescente apprensione. E forse una vena di disillusione verso le istituzioni, alle quali si era affidato fiducioso e rispettoso delle loro disposizioni impartite alle famiglie degli ostaggi.
«Per Eugenio e gli altri la situazione si sta facendo veramente drammatica - spiega il padre dell’ufficiale che il 30 aprile scorso ha compiuto da prigioniero i suoi 30 anni - sia per il trascorrere dei mesi che per l’imminente stagione estiva che laggiù segna temperature proibitive». Dopo una telefonata il 28 febbraio, padre e madre hanno parlato con Eugenio il 12 aprile. A ogni sequestrato erano stati concessi due, tre minuti al satellitare, sotto controllo di un somalo che parla italiano e monitorava i discorsi. Poi più nulla.
«Non ha potuto scendere in dettagli - racconta Adriano Bon - ma ci ha fatto capire che la loro impressione è che bisogna attendersi tempi molto lunghi per il rilascio, forse anche sei mesi. L’unica nota positiva è che finora nessuno si è ammalato ma il quadro potrebbe peggiorare rapidamente». È infatti ormai vera questione di sopravvivenza. Da ormai due mesi i marinai dipendono dai somali per il cibo e l’acqua, la cui “qualità” è facile da immaginare. «Non ha potuto raccontare cosa li fanno mangiare - aggiunge Bon - ma l’acqua, a esempio, è fornita in taniche ed è razionata. Lavarsi a esempio ora è quasi impossibile e le temperature stanno per salire sopra i 40 gradi. Sono alloggiati in tende sulla coperta della nave, ancorata sulla costa tra Mogadisico e Capo Guardafui, a Nord, in un villaggio di pescatori convertitisi alla pirateria».
A vigilare su italiani e indiani circa 40 banditi, pesantemente armati. Li scortano sempre anche quando i marittimi vengono lasciati entrare nella nave la manutenzione ordinaria. Ma anche da questo punto di vista giungono cattive notizie: sembra che anche il carburante, per le operazioni di routine e l’auspicato ritorno a casa, stia finendo. «La Farnesina - si sfoga il padre del triestino che in mare aveva ricevuto i gradi di primo ufficiale - dapprima ci ha assistito molto egregiamente e le telefonate erano costanti, come quelle dell’armatore D’Amato ma con il passare dei mesi il telefono è rimasto sempre più silenzioso. Non sappiamo cosa pensare ma non possiamo restare fermi. Immaginare che, se tutto va bene, ci vorranno altri sei mesi ci fa stare male. Pensate in quali condizioni psicologiche, oltre che fisiche, si potrebbero trovare questi ragazzi al rilascio, dopo quasi un anno di sequestro, e in condizioni così dure». A Procida, comune che “vanta” ben quattro marittimi di navi dei due fratelli armatori d’Amato catturati dai somali, il sindaco ha allertato i parlamentari della zona e organizzato una fiaccolata, raccogliendo 8.500 firme da inviare al Presidente Napolitano. Adriano e la moglie, con la discrezione che li contraddistingue, solo con il passaparola ne hanno in mano, dopo cinque giorni, 2.800. Ma attendono un segnale dalle istituzioni.
©RIPRODUZIONE RISERVATA
TRIESTE. «Finora siamo stati in silenzio, come ci avevano suggerito il ministero degli Esteri e la compagnia armatrice per facilitare le trattative per il rilascio ma ora, dopo mesi di stallo, non possiamo più restare a guardare». Adriano Bon, padre di Eugenio, il marittimo triestino sequestrato assieme ad altri quattro marinai italiani e 17 indiani, al telefono mantiene la stessa decorosa compostezza con la quale la famiglia aveva accolto la notizia del rapimento della “Savina Caylyn” da parte di pirati somali ma dalle pause della conversazione traspare una crescente apprensione. E forse una vena di disillusione verso le istituzioni, alle quali si era affidato fiducioso e rispettoso delle loro disposizioni impartite alle famiglie degli ostaggi.
«Per Eugenio e gli altri la situazione si sta facendo veramente drammatica - spiega il padre dell’ufficiale che il 30 aprile scorso ha compiuto da prigioniero i suoi 30 anni - sia per il trascorrere dei mesi che per l’imminente stagione estiva che laggiù segna temperature proibitive». Dopo una telefonata il 28 febbraio, padre e madre hanno parlato con Eugenio il 12 aprile. A ogni sequestrato erano stati concessi due, tre minuti al satellitare, sotto controllo di un somalo che parla italiano e monitorava i discorsi. Poi più nulla.
«Non ha potuto scendere in dettagli - racconta Adriano Bon - ma ci ha fatto capire che la loro impressione è che bisogna attendersi tempi molto lunghi per il rilascio, forse anche sei mesi. L’unica nota positiva è che finora nessuno si è ammalato ma il quadro potrebbe peggiorare rapidamente». È infatti ormai vera questione di sopravvivenza. Da ormai due mesi i marinai dipendono dai somali per il cibo e l’acqua, la cui “qualità” è facile da immaginare. «Non ha potuto raccontare cosa li fanno mangiare - aggiunge Bon - ma l’acqua, a esempio, è fornita in taniche ed è razionata. Lavarsi a esempio ora è quasi impossibile e le temperature stanno per salire sopra i 40 gradi. Sono alloggiati in tende sulla coperta della nave, ancorata sulla costa tra Mogadisico e Capo Guardafui, a Nord, in un villaggio di pescatori convertitisi alla pirateria».
A vigilare su italiani e indiani circa 40 banditi, pesantemente armati. Li scortano sempre anche quando i marittimi vengono lasciati entrare nella nave la manutenzione ordinaria. Ma anche da questo punto di vista giungono cattive notizie: sembra che anche il carburante, per le operazioni di routine e l’auspicato ritorno a casa, stia finendo. «La Farnesina - si sfoga il padre del triestino che in mare aveva ricevuto i gradi di primo ufficiale - dapprima ci ha assistito molto egregiamente e le telefonate erano costanti, come quelle dell’armatore D’Amato ma con il passare dei mesi il telefono è rimasto sempre più silenzioso. Non sappiamo cosa pensare ma non possiamo restare fermi. Immaginare che, se tutto va bene, ci vorranno altri sei mesi ci fa stare male. Pensate in quali condizioni psicologiche, oltre che fisiche, si potrebbero trovare questi ragazzi al rilascio, dopo quasi un anno di sequestro, e in condizioni così dure». A Procida, comune che “vanta” ben quattro marittimi di navi dei due fratelli armatori d’Amato catturati dai somali, il sindaco ha allertato i parlamentari della zona e organizzato una fiaccolata, raccogliendo 8.500 firme da inviare al Presidente Napolitano. Adriano e la moglie, con la discrezione che li contraddistingue, solo con il passaparola ne hanno in mano, dopo cinque giorni, 2.800. Ma attendono un segnale dalle istituzioni.
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Riproduzione riservata © Il Piccolo