Rumiz a Gorizia: «La musica più bella oggi deriva dalle migrazioni»

Il giornalista parteciperà sabato al Festival Treccani con la Piccola Orchestra dei Popoli. La compagine suona su strumenti ricavati dai barconi utilizzati da chi fugge da fame e guerre

Alex Pessotto
Il giornalista e scrittore Paolo Rumiz
Il giornalista e scrittore Paolo Rumiz

Si entra nel vivo: per il festival Treccani della Lingua italiana, edizione numero otto, alla Fondazione Carigo oggi, 11 aprile, nella sua seconda giornata, son fissati tre appuntamenti: alle 16, il filosofo Umberto Curi parlerà di “Confine” e proprio “confine” è il termine che l’iniziativa indagherà in ogni suo contesto applicabile. Alle 17 toccherà al direttore artistico di Pordenonelegge, Gian Mario Villalta, affrontare il tema “Lingua e dialetti in una terra di confini”. Quindi, alle 18, sarà il filologo Andrea Mazzucchi a raccontare di “Dante e i confini dell’umano”. L’iniziativa, poi, andrà avanti fino a domenica e per sabato, alle 21, al Kulturni dom, ha in previsione uno dei suoi eventi più attesi: “Terra di nessuno”.

Sul palco, Paolo Rumiz e la Piccola Orchestra dei Popoli, non un’orchestra qualsiasi: i suoi strumenti in legno, infatti, sono stati ricavati dai barconi dei migranti, «trasformati dalle mani dei detenuti delle principali carceri italiane e, in particolare, del carcere di massima sicurezza di Opera, alla periferia di Milano, dove sono stati seguiti per più di due anni da un bravissimo liutaio» racconta Rumiz, che ha anche assistito al processo di metamorfosi delle barche in strumenti.

Tra l’altro, fa notare il giornalista e scrittore, «nella lingua del Mediterraneo più profondo, la parola “liuto” deriva dall’arabo al oud, che è anche il nome di quei tipi di barche utilizzate per ricavare gli strumenti della Piccola Orchestra dei Popoli. Quello di domani, sarà allora un evento di alto valore simbolico a indicare come sia impossibile scindere le diverse rive del mare». Rumiz, in particolare, interverrà tra un brano e l’altro eseguito dalla compagine che, in altri momenti, farà da sottofondo alle sue parole.

«Ora tutti rivendicano spazi geografici, da Putin a Trump, mentre da parte mia rivendico il diritto di poter camminare lungo una linea che è il confine, eclissandomi dal resto – aggiunge –. Io, a questa linea, appartengo. Anche perché sono nato la stessa notte di quando è stata tracciata: il 20 dicembre del 1947. Quindi, ho il confine nella genealogia, nel Dna.

Del resto, mio nonno paterno emigrò in Argentina, assolutamente solo, quando aveva 8 anni, imbarcandosi da semiclandestino su un piroscafo francese: nel sangue ho pure la migrazione. E sono convinto che molta splendida letteratura, ma soprattutto il meglio della musica internazionale di oggi, blues, klezmer, musica balcanica, persiana, indiana e quel grande movimento che è stato portato in Europa dall’esodo dei sinti e dei rom, nasca da migrazioni, da uno stacco dal Paese di origine e dalla nostalgia che questo stacco comporta. Parliamo anche del flamenco, del fado, del cante jondo spagnolo».

Al di là dell’evento serale, il Festival, sabato, prevede anche appuntamenti pomeridiani: alla Fondazione Carigo, alle 16, Fabio Rossi parlerà di “Scrivere o digitare? Il confine della scrittura orale”; alle 17, ci sarà Gabriella Bottini con “Neuroscienze e arte: confini e frontiere o sovrapposizioni?”; alle 18, è poi in calendario Beatrice Cristalli per “Dinamicità della lingua” e alle 19 Carlo Ossola per “Confronto con il limite: enciclopedismo e sapere”. Sempre alla Carigo, domenica, dalle 10, altre tre relazioni a chiudere l’iniziativa. —

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