Ristoranti, il Bagutta triestino passa ai cinesi

Addio “Bagutta Triestino”. Lo storico locale di via Carducci è destinato a ospitare qualcosa di etnico su cui i nuovi proprietari cinesi hanno steso un velo di riservatezza forse anche esagerato. Eppure quel buchetto ha scritto la storia di Trieste. Quella spensierata degli anni ’60, il periodo del “boom” e della motorizzazione di massa, del beat e delle prime gite «di là», dopo il grande gelo postbellico. Anni di lavoro sicuro, di introiti garantiti, di lire che sembravano valere qualcosa, di aspirazioni che spesso centravano l’obiettivo. Anni in cui la disoccupazione era un concetto astratto, i “co.co.co” follie ipotetiche di qualche economista che aveva alzato un po’ il gomito. In quegli anni, il “Bagutta Triestino” di via Carducci (già buffet Cimetta e poi bar Santo Domingo) era il punto di riferimento di ogni “baraccata”, la tappa finale o parziale da non mancare nel festeggiamento di ogni traguardo raggiunto.
A ricevere una clientela eterogenea ma sempre di qualità provvedeva Giorgio Venturi, gran patron del locale, che assieme ai figli Flavio e Claudio gestiva il locale e, fedele a un nome che aveva voluto mediare dal più famoso ristorante milanese (guadagnandoci anche una causa per usurpazione d’identità, poi vinta), puntava sulle novità per i clienti. Maestro della “lampada”, e cioè della cottura flambè, Venturi aveva reso partecipi i figli della sua arte e allevato un’intera generazione di titatardi triestini con le sue crepes all’arancia o con altre specialità. Erano gli anni in cui tutto sembrava possibile, i figli non restavano a casa fino a 40 anni, i premier legiferavano anche su affari non esclusivamente personali e un’ipotetico ago dell’umore generale tendeva all’ottimismo.
Un periodo d’oro, finito nel 1966 quando Venturi, come ricorda il figlio Flavio, decise di esportare tutta la sua professionalità e il suo “know how” proprio dietro l’angolo, in quello che sarebbe diventato “Venturi alla Luna”, buen retiro per decenni dei giornalisti dell’adiacente “Piccolo” e, in genere, di tutti quelli che sentivano un’improvvisa voglia di risotto o di pasta alle due del mattino.
Un altro secolo, in tutti i sensi. L’ultimo gestore, Maurizio Turisini, ha portato avanti per 40 anni il “Bagutta” puntando sull’affetto di una clientela che amava incondizionatamente la sua cucina “du marchè”, che cioè, prendendo a prestito il termine francese, proponeva primizie e altro nella misura in cui il mercato giornaliero le offriva. Funghi e magari tartufi in autunno, carne speciale sempre, presentata con grande enfasi da quel friulano che aveva scelto Trieste a suo domicilio, introducendo una gentilezza e una preparazione che in quegli anni (si era in piena epopea dei jeans) non erano da tutti. Gli anni “orribili”, quelli che stiamo vivendo, alla fine hanno stritolato anche lui, avanti negli anni e fino all’ultimo imprescindibile da una mamma che ha cucinato fino agli ottanta e oltre.
Sul locale che gli succederà, buio pesto. La giovane titolare cinese si lascia scappare solo che «non è il caso di parlare adesso, semmai tra due mesi». Sulla tipologia futura, peraltro, si accettano scommesse. Sia pure un cinese avanzato, un sushi simil-giapponese o un multietnico (nippo-thailandese) non resta che augurargli la migliore delle fortune. E versare una lacrimuccia sul “Bagutta”. Simbolo di una ristorazione che, anche al di là del valore assoluto, si è fermata a un periodo di ottimismo e speranze che difficilmente rivivremo.
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