«Ridateci la Jugoslavia, un Paese unito»
BELGRADO. Sono passati vent’anni dalla dissoluzione della Jugoslavia. Due decenni che hanno lasciato profonde ferite nella gente dei Balcani, generato milioni di pagine di analisi che hanno tentato di sviscerare il problema-chiave. Perché un grande Paese è imploso? Le risposte, tante, ma mai conclusive. Una domanda è tuttavia sempre stata lasciata senza risposta dagli esperti: qual è stata la «dimensione umana della disintegrazione» della Federazione? Quanto mancano Tito e la vecchia Jugoslavia ai giovani di oggi, a quelli che ne hanno vissuto i suoi ultimi giorni e a quelli che ne hanno solo sentito parlare?
Generazioni 1971-1991
Al quesito ha cercato di rispondere un’analisi-sondaggio commissionato dal think tank European Fund for the Balkans e condotto da IPSOS-Strategic Marketing. «Vent’anni dopo il 1991, la storia di due generazioni», s’intitola il ponderoso rapporto presentato venerdì a Belgrado. L’ipotesi di base era stimolante: «L’ultima generazione jugoslava, nata nel 1971, viveva gli anni della formazione quando i conflitti iniziarono e i primi 20 anni della sua vita adulta furono condizionati dalla guerra». I nati nel 1991, al contrario, «sono troppo giovani per ricordare il conflitto e la caduta del vecchio sistema. Isolati gli uni dagli altri», nei nuovi Stati indipendenti, «ora stanno raggiungendo l’età in cui possono plasmare il futuro delle proprie nazioni». Quali sono le «percezioni» di queste due generazioni rispetto al passato? Che cosa pensano della vecchia Jugoslavia e della vita di oggi, nei tanti più o meno minuscoli Stati sorti dopo la sua dissoluzione? Le risposte fornite da un campione di 2500 ragazzi ed ex ragazzi delle generazioni 1971, «quella che ha sopportato il peso della transizione», e quella del 1991, «la generazione del domani», sono illuminanti.
Differenze regionali
Nei Balcani «le differenze generazionali» sono minime, prevalgono invece «quelle tra Paese e Paese», a riprova che i nuovi contesti nazionali «hanno formato le opinioni individuali», mentre il fattore-lingua ha rafforzato due grandi gruppi, «la Jugosfera» e la «Sfera albanese». Difficile, chiariscono gli estensori del rapporto, trattare i nati nel 1971 e quelli del 1991 di questi Paesi come un unicum, data l’importanza dei corsi diversi presi dalle nazioni considerate – Croazia, Bosnia-Erzegovina, Serbia, Macedonia, Kosovo, Montenegro, Albania –, dopo il 1990. Più utile dunque studiare le differenze a livello regionale, raggruppando le opinioni dei due gruppi analizzati.
Nostalgia del passato
I dati dimostrano che «la stragrande maggioranza delle persone nella regione ancora rimpiangono la perdita di un Paese unito», con la sola eccezione della Croazia (solo 30%) e del Kosovo (25%). Si starebbe meglio se la Jugoslavia esistesse ancora, pensano il 69% dei serbi, 6 montenegrini su 10, il 56,3% dei bosniaci (con una punta dell’81% in Republika Srpska) e il 62% dei macedoni. Solo il 27,8% degli albanesi ha nostalgia invece del regime e dell’assoluto isolamento del Paese delle Aquile voluto da Enver Hoxha.
La colpa del collasso
Tra Zagabria e Belgrado, tra Sarajevo e Pristina, spesso aleggia la domanda: a chi imputare la responsabilità della disgregazione della Federazione? «La maggior parte degli intervistati percepisce la comunità internazionale come il colpevole numero uno», con l’acme in Serbia e Macedonia, la risposta a sorpresa. E i Milosevic? E i Tudjman? Nessuna colpa? Se la gente, con l’eccezione della Croazia (64%: il colpevole vero è Milosevic) e del Kosovo (45%: colpa collettiva delle vecchie generazioni), non considera responsabili le proprie o altrui élite politiche ciò avviene a causa delle manipolazioni delle proprie classi dirigenti riguardo le posizioni europee e internazionali sui Balcani.
Scarsa fiducia nei “vicini”
Certo, a molti manca la Jugoslavia, ma è venuta meno anche la fiducia negli ex connazionali, ormai sentiti come stranieri. «La sfiducia prevale tra la gente della regione, e in alcuni Paesi», Albania e Serbia in primis, «le giovani generazioni sono ancora più sospettose» dell’“altro” di quelle che hanno provato l’esperienza della guerra. Ancora più preoccupante il fatto - «non ce l’aspettavamo», ammettono gli analisti -, che un numero estremamente basso di persone colga i Balcani «come una singola regione culturale». Nota positiva: sono in molti, soprattutto in Montenegro (62%), Kosovo (58%) e Macedonia (81%) ad aver espresso il desiderio di viaggiare di più per conoscere gli “ex nemici” e per capire, forse, quanti elementi ancora li uniscano ai “vicini lontani”.
Europa, Europa
I giovani balcanici «sono scettici ma ancora nutrono speranza in un futuro migliore». E mentre pensano, a grande maggioranza, «di vivere in un mondo peggiore di quello dei propri genitori», ancora dimostrano un discreto livello di «soddisfazione per la vita in generale», con l’eccezione dei serbi (solo il 25% ritiene buono il proprio standard di vita). E poi l’Ue. Mentre i ragazzi del ‘71 vedono Bruxelles come un’entità «fragile e vulnerabile», i più giovani sono più aperti verso l’integrazione europea. Anche perché un giorno riunirà, almeno sulla carta, quello che con la forza è stato separato.
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