Reportage dall’Afghanistan, le donne restano schiave del burka

Nel 2001, dopo l'attacco americano ai Talebani, si diceva che la libertà delle donne afgane era alle porte. Dieci anni dopo non è cambiato nulla

Ricordo bene i giornali del 2001 sull'Afghanistan dopo l'attacco americano ai Talebani. Dicevano che per le donne di Kabul, Herat e Kandahar era arrivata l'ora della libertà. Sembrava la fine della schiavitù del burka, il sacco di nylon con la grata per gli occhi in cui le femmine di quel Paese erano rinchiuse per decreto degli ultras dell'Islam. Ebbene, a distanza di dieci anni, nonostante molti miglioramenti nelle scuole e nelle pubbliche istituzioni, per le donne va ancora peggio.

Non solo il burka c'è ancora, non solo si è ricominciato a lapidare, ma in questi giorni entrerà in vigore una legge che stringe sotto il controllo di un governo "maschilista" (tale è quello di Karzai nonostante la presenza occidentale) le case-rifugio che negli ultimi anni sono state l'unico approdo per le donne e le ragazze fuggite alle sevizie delle loro famiglie o dei loro mariti. La casa gestita a Herat dall'avvocatessa Suraya Pakzad, 41 anni, sei figli, sposata a 13 anni a un uomo di 27 (matrimonio riuscito, afferma, per «pura fortuna»), funziona sotto continua minaccia di morte, di ricatto o rapimento.

La polizia di Karzai afferma di non poterle dare protezione né scorta, né di giorno né di notte. Eppure ogni giorno in Afghanistan vengono uccise o sfigurate donne che hanno cercato la libertà, o vengono rapiti bambini da bande in cerca di riscatto (industria questa tra le più prosperose del Paese). Case-rifugio come questa sono gestite in modo indipendente, e dentro gli uomini non possono entrare. Ora la legge di Karzai vuole abolire questo "territorio franco" con la scusa che le denunce e le immagini di questi luoghi hanno fatto il giro del mondo e «disonorato il Paese».

La decisione è stata presa dalla Corte Suprema, che è considerato l'organo più oscurantista del Paese, e c'è chi vede in questa decisione un'ulteriore apertura ai talebani, con i quali si stanno intavolando altri innominabili compromessi, a spese delle donne. «La più grande delle mie figlie - dice Suraya - ha paura. Mi dice: "Hai una cattiva reputazione, altre madri portano il burka e tu sei in televisione". Io rispondo che sono capace di morire per le donne afghane. Qualcuno deve pur farlo». Alla casa di Suraya arrivano in maggior parte ragazzine in fuga da un matrimonio forzato.

Chi fa una simile scelta è come se fosse morta per la famiglia d'origine. Perde tutto: nome, casa, bambini, terra. Ed è condannata a restare zitella, perché in Afghanistan solo mamma e papà possono scegliere l'uomo che ritengono giusto. Ma c'è anche la fuga da un matrimonio già avvenuto con un marito violento, e questa è un'infrazione ancor più grave della legge afghana, che è un misto della Sharia e della consuetudine tribale.

Ebbene, la nuova legge prescrive che la donna in cerca di rifugio debba essere accompagnata «da un parente maschio», il che significa spesso la stessa persona da cui si tenta di fuggire. Un controsenso. Ho sentito donne dire che si suicideranno se un provvedimento del genere andrà in vigore. Poiché i talebani considerano questi luoghi una specie di case di prostituzione, ne viene che le giovani ospiti, secondo questa legge, dovranno essere sottoposte a continui e umilianti esami ginecologici per il controllo della loro attività sessuale. Suraya stessa è stata coperta di calunnie: in alcune Ong ho sentito riportare con spaventosa leggerezza voci secondo le quali questa eroina gestirebbe solo un bordello mascherato.

Lo scopo ultimo di Saraya è semmai di far tornare a casa queste ragazze, ma con la certezza assoluta che non saranno uccise. L'ospedale di Mazar-I Sharif ha solo cinque letti di emergenza per le ustioni da auto-immolazione per tutto il Nord, dal confine turkmeno a quello cinese. Le donne che si sono date fuoco col kerosene arrivano soprattutto d'inverno, il tempo dei matrimoni. È come se le portasse il vento gelido dell'Indukush. Di Anar Bibi sono rimasti solo gli occhi neri che sorridono. Il resto è tutto una piaga, l'ottanta per cento della pelle ridotta a una superficie collosa, color giallo-rosso. Anar si è data fuoco per non sposare l'uomo che le era stato assegnato in cambio di ottomila dollari e due mucche alla famiglia. Il dottor Najib che mi ha portato da lei, ironizza davanti a un'altra paziente sfigurata: «Le nostre donne sono merce... Guarda questa, le ho rifatto i seni, e ha ancora la vagina... ora il padre potrà venderla per almeno duemila dollari».

Davanti a questo cinismo, appare umano persino il padre di Anar, che l'ha venduta e ora la assiste con amore nel suo sporco camicione da nomade. Il corpo della donna, non il territorio, è il vero campo di battaglia in Afghanistan. Le adolescenti rubate, stuprate, uccise, vendute o imprigionate col permesso della legge per pagare sgarbi tribali commessi da maschi. L'acido contro le studentesse in posti come Kandahar o il Nuristan, il veleno sparso nelle scuole femminili di Kunduz, le lettere minatorie notturne inchiodate alle porte delle famiglie di Balkh, che mandano le loro bambine a istruirsi, ragazzine che studiano di nascosto in case private. Tutto come e peggio di prima. In compenso abbiamo regalato ai ministeri di Karzai computer, telefonini, scrivanie e toilettes del terzo millennio.

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