Referendum sulla giustizia, quei cinque quesiti e le conseguenze reali

Sergio Bartole

TRIESTE Quando iniziarono a raccogliere le firme per l’indizione dei referendum che saranno all’attenzione degli elettori in questo prossimo fine settimana, i promotori dell’iniziativa si giustificavano sostenendo di voler supportare i propositi riformatori del governo e del parlamento in materia.

Oggi, con la riforma Cartabia in dirittura d’arrivo ed in una situazione per loro più incerta di allora, sostengono che i referendum sono essi stessi tout court atti di riforma della nostra giustizia ed offrono al popolo l’occasione di prendere decisioni definitive da troppo tempo trascurate dagli organi istituzionali della Repubblica, nonostante i ripetuti autorevoli solleciti dei Presidenti Napolitano e Mattarella. Se così fosse chi scrive dovrebbe addentrarsi in un esame analitico e dettagliato dei possibili risultati dell’accoglimento dei quesiti sottoposti all’attenzione dell’elettorato. Ma il caso non richiede minute analisi di un eventuale rinnovato assetto della giustizia italiana.

Proponendo l’abrogazione delle disposizioni di legge che i votanti troveranno indicate nelle schede che saranno loro consegnate, leghisti e radicali isolano, da un lato, ben precisi precetti normativi senza pretendere di disboscare il complesso delle norme che a quei precetti fanno contorno dando già di per sé disciplina alla materia, ovvero, dall’altro lato, lasciano le materie interessate prive di una disciplina almeno politicamente necessaria. Il fatto che la Corte costituzionale li ha dichiarati ammissibili non significa che l’elettorato si debba pronunciare positivamente al riguardo.

Caso paradigmatico è quello della separazione delle funzioni dei magistrati, l’obiettivo dei promotori è l’abrogazione delle norme che consentono il passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti e viceversa nella carriera dei magistrati. La proposta è motivata dall’intento di interrompere la trama delle relazioni di colleganza che – a detta di alcuni commentatori – incrinerebbero l’indipendenza reciproca di giudici e pubblici ministeri esponendoli a mutue disdicevoli influenze pericolose per le parti dei giudizi.

Quand’anche la proposta fosse accolta, l’inconveniente segnalato non verrebbe meno. La carriera di giudici e pubblici ministeri è unitariamente riportata dalla Costituzione all’unica sede del Consiglio superiore della magistratura ove siedono consiglieri eletti dagli uni e dagli altri e, quindi, il preteso rischio dell’esposizione a reciproche influenze permane in una sede più elevata ed autorevole di quella dei meri rapporti di colleganza e per tappe importanti della carriera dei singoli (assegnazioni, trasferimenti, promozioni e provvedimenti disciplinari). Senza la riforma della Costituzione l’opera resta incompiuta. E non è detto che tale riforma sia auspicabile.

Si vorrebbe invece direttamente incidere sull’assetto del Consiglio superiore liberalizzando la presentazione di candidati per la elezione a consiglieri togati ed abrogando il requisito di almeno venticinque firme di colleghi a sostegno delle singole candidature. La proposta rischia di portare a risultati di scarso e nessun rilievo. Le candidature per il Consiglio superiore hanno possibilità di riuscita solo in virtù di un passaparola all’interno dei gruppi dei magistrati, ai quali non è consentito vietare di associarsi. Questa circolazione di idee e proposte permarrà anche in assenza della sottoscrizione delle candidature giacché è inimmaginabile la possibilità di vittoria di isolati Don Chisciotte.

Più sostanza può avere la proposta di consentire la partecipazione dei membri laici (avvocati, professori universitari) a tutte le deliberazioni dei consigli giudiziari, incluso il Consiglio direttivo della Cassazione.

Nel caso si tratta soltanto di estendere a questi peculiari organi giudiziari un principio di parificazione della membership di togati e laici che già vale per il Consiglio superiore. E del resto già si sta muovendo in questa direzione la riforma Cartabia di cui dovrebbe essere imminente l’approvazione definitiva.

Gli ultimi due quesiti non riguardano direttamente l’organizzazione della giustizia. Uno riguarda la legge Severino di cui si vorrebbe l’integrale abrogazione così riaprendo la possibilità di candidature a cariche elettive e di governo di condannati con sentenze definitive per delitti non colposi. Che la normativa sia in qualche caso troppo afflittiva (vedi il caso dei sindaci in presenza di condanna di primo grado) non sembra autorizzare la rinuncia alla severità in ambiti troppo spesso inquinati purtroppo dal malaffare e dalla criminalità organizzata. Da ultimo il proposto intervento sulle misure cautelari nel processo penale soffre anch’esso di troppo larga generosità entrando in una materia che solo il legislatore parlamentare è in condizione di padroneggiare con il dovuto equilibrio e la cura dei dettagli.

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