Quell'intervento a Trieste quando Mario Draghi disse come guarire i mali endemici dell'Italia
TRIESTE «Non sono solitamente propenso a parlare in pubblico: questa è un’attività che appartiene di diritto a chi deve cercare il consenso della pubblica opinione normalmente per fini politici: io ho fatto e faccio altri mestieri»: così Mario Draghi, oggi premier incaricato per la formazione di un nuovo governo che dovrà gestire una delle emergenze più drammatiche del Paese in piena pandemia, svelò a Trieste un aspetto del suo temperamento, solo in apparenza freddo e riservato, che in quel momento si conosceva poco. Quel giorno disse di trovarsi in una delle rare occasioni in cui gli era possibile fare quello che definì «un esercizio di prospettiva» e cioè «guardare a distanza gli sviluppi della realtà che viviamo». E un nuovo esercizio di prospettiva deve averlo convinto ora ad accettare l’invito del presidente Mattarella a tentare di formare non un governo tecnico ma, viste le gravi circostanze, un governo di salute pubblica.
Il 16 aprile 2004, in una delle rarissime uscite in pubblico, Draghi all’epoca neogovernatore della Banca d’Italia ricevette il diploma honoris causa in International Business al Mib, la scuola di management triestina di fronte al Gotha della finanza. Quel giorno SuperMario, il banchiere atermico nella mitologia del futuro governatore della Banca centrale europea, spiegò quali fossero per lui le riforme necessarie per passare «da un modello che protegge una società di vecchi fondato su poco lavoro e molte tasse a un modello che incoraggia i giovani e ringiovanisce i vecchi, basato su più lavoro per tutti, maggiore crescita, poche tasse, e più investimenti in istruzione, ricerca, tecnologia, difesa, infrastrutture». Un vero e proprio programma di governo, se si vuole, al quale aggiungere la visione inclusiva di un’Europa «forte, dinamica, capace di accogliere e crescere». C’è già tutto in quel Draghi triestino, che mai avrebbe forse immaginato il dramma di una pandemia da aggiungere al florilegio di Cigni neri che ha sfidato e vinto da banchiere centrale europeo con il famoso whatever it takes, che oggi dovrà applicare alla distribuzione dei vaccini.
La pandemia rischia di essere una specie di livella fra i Paesi Ue accentuando divari fra Paesi forti e deboli come oggi è l’Italia: «Le politiche nazionali - disse - contano ancora molto nel produrre ricchezza o povertà». L’ex governatore Bce è stato capace di tenere unito il treno europeo vincendo il rigorismo tedesco e governando i mercati con pochissime ma efficaci parole. Oggi il premier in pectore resta molto attento al problema delle diseguaglianze e alle dinamiche di una società in cambiamento. Già in quel discorso triestino descrisse un Paese ideale nemico «dei privilegi individuali e di corporazione, del rifiuto di ogni cambiamento in cui i vincoli all’agire si confondono con le protezioni, in cui prevale la paura e in ultima analisi trionfa la povertà». Quella del 2004 era un’Europa appena entrata nell’era della moneta unica che doveva ancora affrontare le tante crisi del decennio (da quella del debito sovrano ai mutui subprime e al crack di Lehman Brothers) e stava beneficiando di un periodo di grande ripresa economica. Ma non avendo ancora digerito l’ingresso nella moneta unica il Vecchio Continente, nella definizione di Draghi, era entrato «in un processo paralizzante di autoanalisi».
Come osserva Vladimir Nanut, direttore scientifico del Mib che allora gli consegnò il master honoris causa, fu la conclusione di quel discorso a spiegare ora il motivo della sua nuova discesa in campo e cioè la visione di «un’Europa forte, dinamica, capace di accogliere e di crescere, che mi piacerebbe lasciare ai miei figli». Perchè se Draghi riuscirà a diventare premier, non c’è dubbio che il Paese beneficerà del suo prestigio. —
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