Quelle carrozze di “seconda” che sembrano carri bestiame

Chiudo gli occhi, rammento, e seduto sopra le panche della “terza classe” sento vibrare la corsa del treno. Corsa degli anni ‘60. Corsa euforica perché allora, il viaggio, qualsiasi destinazione avesse, ti metteva addosso l’agitazione emozionata di un’euforia. Quella volta, l’aereo era un’utopia, i treni veloci una sciocchezza, e le coincidenze si incastravano senza l’ansia del ritardo. Chiusi nell’intimità di uno scompartimento di sei persone, incrociavi la bellezza di un movimento. Sopra lo sguardo distinguevi i portabagagli a rete riempiti con le valigie legate con lo spago, i bottiglioni di vino e olio, e i pacchi avvolti dentro i fogli di giornale, intorno, l’odore orgoglioso che firmava l’umiltà delle proprie origini. Davanti allo sguardo invece, potevi entrare nella nostalgia del marinaio di Procida, il militare di Agrigento, e dentro l’attesa delle famiglie che con la speranza dell’emigrante, trasferivano le loro vite e le loro schiene verso il benessere del Nord. Quella volta, gli scompartimenti si riempivano di parole, per accompagnarsi, sollevarsi, confortarsi, conoscersi, e inventarsi un’amicizia lunga il tempo di un viaggio. Quella volta, il treno, aveva la libertà di uscire dal proprio mondo e di andare incontro al sogno.
Apro gli occhi, e improvvisamente mi ritrovo dentro un viaggio senza ricordi e senza colori, guardo il biglietto, sono sull’Interregionale Trieste – Venezia. Il vagone è affollato. Affollato di gente, di trolley, di giornali aperti che nascondono la figura, e di occhi chiusi che devono smaltire il residuo di un sonno. All’interno gira una folla di voci senza incrocio, perché ognuno parla per conto suo dentro la solitudine dei cellulari. I servizi igienici sono guasti, i finestrini non si aprono, gli odori ubriacano, e il degrado e la sporcizia offendono la dignità del viaggiatore. Siamo in “seconda classe”, sembra un carro bestiame!
All’improvviso si spalancano i megafoni, e la voce del capotreno, come un disco già ascoltato, annuncia un ritardo di quaranta minuti e solleva gli animi elargendo le “scuse più sentite” da parte delle Ferrovie Italiane. Ca… spita, abbiamo raccolto più scuse noi, pendolari terreni, che il Padre eterno, lassù in cielo. L’altra settimana, due ore di ritardo per colpa della neve, l’altro mese, un’ora per un’interruzione elettrica, poi l’incendio del bosco, lo sciopero di una sigla sindacale mai sentita, e avanti, con altri intoppi buoni di ammazzarci l’ansia.
Come per altre volte, anche oggi perderemo le coincidenze, e per noi che viviamo all’estremo di una dimenticanza, le destinazioni continueranno a raddoppiare la distanza.
L’Europa cresce, l’Italia arranca, e Trieste continua a girare nell’ingiustizia di un’amnesia.
Ricordo tempo fa, un viaggio in treno a Roma, con addosso la fatica di tre ore di ritardo. Ricordo la corsa in albergo, e lo smarrimento di un ragazzo dietro il banco delle reception che, compilando la scheda del pernottamento, mi chiese: -Signor Roveredo, nato a?... -. –Trieste!-. –Trieste?... Scusi, Trieste in provincia di?... -. Tralascio la pesantezza della risposta e l’agitazione fisica rivolta a quella povera ignoranza, anche se, come allora, continuo a chiedermi… Ci tolgono i treni, ci raddoppiano le distanze, ora, mica ci vorranno togliere anche la dignità e il rispetto che merita una città come Trieste...? E allora, sveglia governanti! Sveglia politicanti!
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