Quei trentuno anni vissuti in via Reni dalla corsa alle notizie ai siparietti fra colleghi
TRIESTE Tutto accadde in una mattina soleggiata di primavera, era il 24 maggio 1987. All’inizio fu un vero trauma, di quelli che si assorbono molto lentamente. Il passaggio da una sorta di vecchio tempio del giornalismo quale era la sede storica di via Silvio Pellico a un freddo, seppure moderno, stabilimento industriale di via Guido Reni non fu indolore soprattutto per i redattori di lungo corso e per quelli che avevano una visione romantica del mestiere. Per anni i nostalgici rimpiansero le stanzette claustrofobiche, con poca luce e piene di umidità di via Pellico, quel piccolo mondo antico che assomigliava a un labirinto dove poteva capitare di non incrociare un collega anche per mesi come accade tra condomini di un grande palazzo.
Quel 24 maggio di più di 30 anni fa, quando l’allora presidente del Consiglio Amintore Fanfani tagliò il nastro nella nuova azienda alla presenza dei vecchi padroni, il Gruppo Monti-Riffeser, per molti era considerata una data nefasta. La nuova casa era un asettico salone con tutti quei computer disposti su varie file di bancate. Metteva una certa angoscia, sembrava un laboratorio del Burlo Garofolo. Un ambiente che aveva anche un suo nome, open-space e che fino allora avevamo visto nei serial televisivi o nel film “Tutti gli uomini del presidente”.
I più ottimisti, quelli che hanno sempre il bicchiere mezzo pieno, osservavano che almeno non c’era più il problema del parcheggio e naturalmente neanche quello di vedere il tergicristallo dell’auto tappezzato dai foglietti verdi delle multe, il cadeau che i vigili urbani ci lasciavano un giorno sì e un giorno no in via Silvio Pellico. Ma non a torto: c’erano macchine in seconda e terza fila, alcune sul marciapiede, mentre i più temerari tentavano di arrampicarsi con la quattro ruote sulla scala dei Giganti.
All’epoca nella “cieca” via Reni non mancava lo spazio. C’erano solo un tabaccaio, un tosacani e un carrozziere. Urbanisticamente parlando, la città non si era allungata fino a Campo Marzio, qui era quasi periferia, malgrado Pedocìn e Ausonia. La riqualificazione delle Rive di Roberto Dipiazza era ancora lontana. In questa zona s’andava per comprare o riparare un’auto alla Fiat (a cui il Piccolo aveva strappato un lembo per costruire la sua nuova casa) o per prendere una cassetta di pomodori o di pesche al mercato ortofrutticolo. Ánche i locali per rifocillarsi nell’ora d’aria scarseggiavano. Negli anni la città si è avvicinata al Piccolo, ora la movida di via Torino è a quattro passi e ora si fatica a trovare posto.
Nei primi tempi in via Reni sembrava di lavorare a casa d’altri, almeno questa era la sgradevole sensazione. Anche la rivoluzione tecnologica non era stata subito ben metabolizzata. Guardavamo con diffidenza quelle grandi scatole bianche con il monitor e la tastiera. Volevamo indietro le nostre scassate macchine per scrivere, le Olivetti lettera 82, una specie di ferrovecchio con i tasti ballerini. Di colpo era sparita la musica senza spartito del ticchettio del nostro attrezzo di lavoro, un concerto che di solito cominciava verso le 16 quando il Piccolo iniziava il suo sofferto decollo in un crescendo anche di imprecazioni.
L’open-space aveva rivoluzionato il nostro modo di lavorare e di vivere in redazione, aveva azzerato la privacy con effetti devastanti ma a volte anche esilaranti. Tutti sentivano tutto, le discussioni al telefono con fidanzate, mogli, figli, colleghi, seccatori vari. Non c’erano più segreti e non c’erano ancora i cellulari per alzarsi e andare a parlare in un angolo. C’era solo un salottino per gli ospiti. In cronaca c’era la vasca dei pesci, la gabbia di vetro dove era stato parcheggiato il capocronista. Spesso i pesci diventavano urlanti, quando c’erano forti divergenze tra capo e un cronista sui carichi di lavoro.
I più avveduti o forse e meglio dire i più furbi avevano ispezionato la nuova sede di via Reni con largo anticipo e con qualche caffè (più probabile con qualche spritz) avevano convinto i loro capi a sistemarli nelle ultime bancate, in fondo alla sala. Come a scuola, il fascino dell’ultimo banco. Erano così riusciti a stare fuori dalla bagarre. I meno avveduti o i più “sfigati” erano finiti nelle bancate in mezzo al salone, un luogo di passaggio. Era difficile trovare la concentrazione con visitatori persi nella galassia dello stabilimento. Mentre stavi scrivendo ti battevano una manina sulla spalla per chiederti: «La scusi son qua per un morto, dove se fa un necrologio?».
Se avevi poi la sventura di lavorare allo sport il cazzeggio con i colleghi sulla Triestina era inevitabile («alora stavolta andemo su?»). La convivenza non è mai stata facile nel salone: c’è chi veniva rimbrottato perché parlava a voce troppo alta ma sotto accusa erano sempre i cronisti (molto casinisti) e gli sportivi che avevano la tivù perennemente accesa su qualche partita. («Abbassa quel c...de televisor» e puntuale arrivava la replica dall’altra parte: «Cosa pensè che se grattemo, semo qua fin mezzanotte per le notturne»). Per contro presto sparì anche la musica delle telescriventi e di conseguenza anche quei pacchi di agenzie che venivano tagliati con le forbici. Arrivava tutto in rete, quasi un miracolo ma guarda che alla fine quella fredda scatola bianca non è neanche tanto male. Facilitava il lavoro.
Quando rotativa e speditura si trasferirono a Gorizia e la tipografia fu ristretta rimasero spazi enormi, si sarebbero potuti organizzare tornei di calcetto. A questo proposito, nel 2007 una porzione della redazione diventò il set per la commedia “Amore, bugie & calcetto.” Un pomeriggio il regista Luca Lucini provava e riprovava una scena con l’ottimo Giuseppe Battiston che impersonava un giornalista che a una certa ora lasciava in braghe di tela il suo capo rifiutandosi di fare l’ennesimo servizio. Quella sera fermammo il regista per spiegargli che la scena potevamo girarla noi gratis, visto che quello psicodramma serale per noi era pura routine. Il teatrino, quello vero, si consumava, invece, abitualmente in cronaca.
Protagonista il cronista di punta di giudiziaria e nera. Grande penna e grande temperamento. Ma le notizie non hanno orario, a volte arrivavano tardi quando il cronista era ormai esausto. A quel punto sbottava in un «no te fazo, son de stamattina alle 9 in Tribunal...». Carpinteri e Faraguna non avrebbero fatto meglio sulla loro Cittadella. Ma la sua passione superava la stanchezza e sbuffando si metteva a fare un ulteriore giro di telefonate e poi arrivava l’urlo di battaglia: «Bingo, go tuto, ma adesso me servi trenta righe in più. Che pagina?».
Questo andava in scena sul proscenio di via Reni. Sono stati, insomma, trenta anni vissuti pericolosamente, sostenuti da un doping legalizzato che si chiama adrenalina. Una corsa perenne contro il tempo, sempre con la paura di chiudere il giornale in ritardo se non addirittura di non farcela. Per esorcizzarla a volte all’imbrunire si cominciava a mettere le mani avanti «no, oggi no ghe la femo». Adesso che stiamo per levare le tende e per tornare nel cuore della città, si fa largo il pensiero molesto che dopotutto il salone di Campo Marzio non era così male: non ci si annoiava mai. Inconsapevolmente ci eravamo abituati all’ambiente e a tutto quel trambusto da circo Medrano. Era diventata una anomala normalità. La fabbrica delle notizie diventerà ora un supermercato. Lasceremo qualche notizia fresca nel bancone dei surgelati come ricordo. -
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