Quei ministri di Dio pagati 880 euro di stipendio al mese

È la media dei sacerdoti isontini. I parroci hanno una paga adeguata ogni 5 anni, per gli altri c’è un sistema a punti

di Tiziana Carpinelli

GORIZIA

Ci sono ministri e ministri. Quelli onorevoli, che incedono sul tappeto rosso del transatlantico e a casa portano uno stipendio ben superiore ai 10mila euro al mese, e quelli di culto, che agli esordi di carriera spirituale “guadagnano” appena 880 euro netti. Un gruzzolo modesto, con il quale devono coprire le spese domestiche e di sostentamento, proprio come un qualunque padre di famiglia. Tolti i soldi per la perpetua, il cibo, gli abiti, le tasse, il canone Rai, l’energia e i ticket sanitari ciò che resta è ben poco. E spesso viene reinvestito nella parrocchia, a personale contributo di carità. Non si pensi che ai vertici del clero l’integrazione - così tecnicamente si chiama la somma di denaro che un sacerdote percepisce per il proprio mantenimento - sia più sostanziosa: quella del vescovo ammonta a 1500 euro lordi, praticamente il salario di un impiegato.

Del resto, che il mestiere del sacerdote non sia economicamente appetibile lo conferma, in una battuta, don Arnaldo Greco: «Non mi risulta ci sia la fila di giovani disoccupati davanti alla chiesa di Campagnuzza per essere ordinati». Insomma, scordatevi gli anelloni d’oro e le vesti porpora del Vaticano. Quello è un altro mondo, anzi un altro Stato. In Italia, fino al 1985, risultò in vigore il sistema della “congrua”, sancita dal concordato lateranense: un assegno mensile (400mila lire) erogato dallo Stato a guisa di stipendio a parroci, vescovi e canonici. Alla sua soppressione, con la legge 22, vennero istituiti due enti: l’Istituto centrale sostentamento clero con sede a Roma (Icsc) e l’Istituto diocesano sostentamento clero (Idsc). Nell’Idsc confluirono tutti i vecchi “benefici”, ovverosia le diverse proprietà delle chiese (campi, terreni ed edifici): da allora i redditi amministrati, al netto delle spese, vengono inviati alla sede di Roma, che va poi a integrare il mantenimento economico del singolo sacerdote. È comunque in prima battuta l’Idsc, cioè la comunità parrocchiale di appartenenza, a provvedere al sacerdote con una quota mensile, solitamente insufficiente (50 euro, 100 al parroco) mentre l’istituto centrale copre quanto manca. «La Cei – spiega don Arnaldo – ha stabilito che ogni sacerdote debba avere un minimo garantito per la sopravvivenza, con l’introduzione di un sistema a punti: all’avvio di mandato ve ne sono 80, dopo 40 anni di servizio, si potrà arrivare a un massimo di 98, con scatto ogni 5 anni». Il valore di un punto (fermo da 3 anni) è di 12 euro e 36 centesimi. Quindi un sacerdote appena ordinato (25-26 anni) che non svolge una professione ma opera a tempo pieno in parrocchia percepisce un assegno di 980 euro lordi (880 netti al mese). «Ogni sacerdote – prosegue - è obbligato ad aprire un conto corrente bancario, su cui l’Icsc versa l’integrazione al netto della somma minima: in questo Monti è arrivato dopo di noi». Dalla parrocchia di Campagnuzza, per esempio, il sacerdote ha percepito per 17 anni la somma di 12 euro lordi al mesi, ogni volta integrati. «Dovrebbe essere la parrocchia a sostenere il sacerdote – sottolinea – ma le risorse a disposizione non lo consentono».

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