Quattro morti ogni passo. Solo a piedi capiamo l’orrore della prima linea

La nuova tappa porta nell’enorme campo sacro della Bainsizza dove il primo conflitto mondiale sembra essere stato dimenticato
Soldati italiani sull'altopiano della Bainsizza. Durante la Prima guerra mondiale fu teatro dell'Undicesima battaglia dell'Isonzo
Soldati italiani sull'altopiano della Bainsizza. Durante la Prima guerra mondiale fu teatro dell'Undicesima battaglia dell'Isonzo

«Veramente straordinario è il fenomeno dell'ubbidienza. Il soldato [...]impugna il fucile ed esce a sua volta fuori con una naturalezza che confina con la pazzia. Non è l'alcool, non è l'amore per la patria, non è neppure, secondo me, ciò che comunemente viene chiamata disciplina; piuttosto una incomprensibile rassegnazione al destino, non tanto al proprio quanto a quello comune». Parole ed immagini del tenente d'artiglieria austroungarico Fritz Weber.

Passo dopo passo, in questo viaggio lungo il fronte dall'Hermada al Krn, ciò che colpisce maggiormente è come durante gli anni del conflitto, si sia materializzato un paradossale livello di accettata follia. Fotografie di signori in città, seduti nei caffè, a spassarsela. Come quello che scrisse nel suo diario il cremasco don Francesco Piantelli dalle trincee: «Oh le grosse discussioni dei patrioti tabacconi che fanno la guerra al tavolino del caffè, in trincea li vorrei io questi eroi da poltrona, vedremmo allora se la patria è tutto quello che essi dicono!». Qualche chilometro più in là, il fronte. Quanti uomini han perso la vita, in questa guerra? I numeri li sappiamo, ma in fondo vorremmo provare a fare un calcolo diverso.

Quanti passi compongono i novanta chilometri del nostro itinerario? Immaginiamo ottanta centimetri ad ogni passo, e così facendo otteniamo 112500 passi. Quanti sono i soldati morti su questa linea di fuoco tra il 1915 ed il 1918? Gli storici parlano di non meno di mezzo milione. Dividiamo il numero dei caduti per il numero dei passi. Fa quattro morti ogni passo. Sì, camminiamo sopra un’enorme necropoli. E spesso, non ce ne rendiamo conto.

Paolo Rumiz e Nicolò Giraldi
Paolo Rumiz e Nicolò Giraldi

Solamente a piedi questo fronte colpisce per la sua violenza. Solamente a piedi si capiscono i segni del conflitto, dall'eccesso di memoria nazionale in luoghi come Redipuglia o Oslavia all'assenza di cartellonistica informativa, dalle enormi differenze di paesaggio tra l'alta e la bassa valle dell'Isonzo, fino ad avvicinarsi ai progetti dei sentieri di pace tra Italia e Slovenia. Monumenti ai partigiani, cimiteri austroungarici, letteratura che racconta l'Italia, la Jugoslavia, l'Impero. Stelle rosse, Svoboda Narodni. E la Bainsizza, enorme campo sacro dove questa guerra viene dimenticata.

Željko Cimpri›, curatore del museo di Caporetto afferma sempre che "sotto la Jugoslavia la Prima guerra mondiale praticamente non si studiava". La costruzione di un'identità jugoslava passava proprio attraverso questi monumenti. È come se fossimo continuamente rincorsi da questa guerra. La Prima guerra mondiale, le violenze del fascismo prima, quelle del regime nazista poi. John Keegan nel suo monumentale "The First World War": «La prima guerra mondiale inaugurò quella produzione di morte di massa che la seconda portò ad uno spietato compimento». Niente di più vero.

E così facendo, il fronte del Carso e dell'Isonzo si spegne, nessuno lo ricorda, nessuno ne intravede l'importanza. È come se non riuscissimo mai a parlar tutte le lingue che la Storia ha prodotto in queste terre. Ed allora ben venga questo Centenario. Almeno nelle sue forme meno strumentali, meno commemorative, ancora meno celebrative. Forse l'unica cosa che dovremmo fare risiede nel cercare di evocare quel periodo, quegli uomini.

Frati di Monte Santo che leggono i giornali. Li ringraziamo lasciandoci alle spalle il convento. Strada forestale poi ad un tratto, l'altopiano della Bainsizza, un immenso ed irregolare trapezio sulla terra. Prati che sembrano essere prodotti dall'uomo, ritmo calcareo della pietra carsica, macchie bianche di una geologia apparentemente complicata da riconoscere. Grgar ci presenta i primi segni del conflitto. Cimitero austroungarico del paese. «Esattamente dov'è quello nuovo». Lapidi inchiodate al muro di cinta. Ricordano esattamente quelle che si trovano all'entrata del museo di Caporetto. Cognomi presenti: Leban, Cerne, Strukelj, Biteznik, Volk, Humar, Budin. Sulla cappella c'è una targa che ricorda il restauro "ad opera dello stato" avvenuto per opera del fascismo nel 1925. Ricostruire ciò che avevam distrutto. Succede in ogni guerra.

Nel sacrario di Oslavia la memoria violata dal volo dei piccioni
L'entrata del Sacrario di Oslavia

Tra Bate e Lohke mandrie di mucche. C'è qualcosa di alpino in questo altopiano, nella sovrapposizione delle case in pietra. Stalle e legnaie ordinatamente accatastate nei campi. I prati sono falciati. Presenza dell'uomo. Vicino alla strada che riporta in cima verso Kal nad Kanalom, sulla sinistra compare la corona delle Juliske, le Alpi slovene. C'è un tavolo e ci fermiamo. Studio del percorso. Mappe su legno. Lo sguardo si perde verso le montagne, in un fermo immagine che potrebbe ricordare punti imprecisati delle Highlands scozzesi. Due ghiandaie si agitano a pochi metri da noi. Paolo pianta il cavalletto e scattiamo una foto.

Subito dopo pranzo gli scuolabus scaricano bambini che tornano da scuola. Come a Medeazza. Saltano da uno più grande ad uno più piccolo, da una fermata all'altra. Qui, le famiglie possono contare su questo servizio. Bambini che crescono sull'altopiano della Bainsizza, tra ciò che accadde ed il suo presente. La calma a qualche chilometro dal fronte di quella città fatto di reticolati, di filo spinato, di trincee, di fuoco d'artiglieria, di bombardamenti senza fine, di tregue temporanee, di nuvole di gas, di promesse da marinaio che sì, probabilmente, tutto questo un giorno finirà. Malinconicamente falso.

Quello che sembra non finire è questo altopiano. C'è somiglianza tra la Bainsizza ed Asiago. Un infinito numero di caduti, la sovrapposizione della memoria tra la Prima e la Seconda guerra mondiale e l'ondulata rappresentazione dei loro prati. Sentieri dappertutto, direzioni diverse. Le strade in mezzo al bosco non vedono automobili da chissà quanto. Gli alberi sembrano aver subìto una mutazione genetica, causa il fenomeno del gelicidio invernale. Faggeti che forse solamente l'Appennino tosco-emiliano può mettere in mostra in egual bellezza. Cromatismo dei pendii che cambia vorticosamente. Sensazioni dinariche. Continuo saliscendi, ondulata linea che parte da qui e rimbalza fino in Grecia, come crateri boschivi finiti sottosopra. Tappeto di pietra capace di cambiar fantasia.

Saliamo così fino a quasi 800 metri sul livello del mare per poi lentamente affrontare la discesa, in controluce, sulle stradine che portano verso la valle della So›a. Tutto sembra immobile, in un'immagine disegnata, un'acquaforte da imprimere nel ricordo, nell'evocazione di chi questi posti, riposando in silenzio, continua a raccontarli.

L'arrivo nel paese di Prapetno dove dormiamo è di quelli che ricordano il paesaggio agricolo, dove gli animali da cortile scrutano l'arrivo dei forestieri. Le gocce, che da una tettoia precipitano dentro ad un vecchio fusto per l'olio, disegnano sulla superficie dell'acqua ripetuti cerchi concentrici. Nelle case costruite le une sopra le altre la toponomastica sembra quasi non esistere, sostituita dai cartelli che vendono uova e formaggio. Cena con brodo. Il cucchiaio s'immerge e la conversazione può finalmente partire. È in quel momento, quasi a cena finita, che fa la sua comparsa una cartina geografica e cominciamo a puntare l'indice sulla mappa e a disegnar l'itinerario di domani. Domani Mrzli. E nuovi compagni di viaggio.

(4 - Continua. Le precedenti puntate sono state pubblicate il 28 giugno, il 5 e 19 luglio)

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