Quando nonna Amalia minacciò di lasciare il neonato alle cure di Franz Josef
TRIESTE Le occasioni d'incontrarci tutti assieme, con mia sorella e mio fratello e i numerosi cugini, in questi ultimi anni si son fatte più rare: sia per motivi logistici - alcuni non vivono più a Trieste, sia perché invecchiando si diventa un po' orsi. Ma oggi è successo, e dopo gli abbracci e i convenevoli di rito - quanto tempo, come stai, che piacere - basta un richiamo alla nostra infanzia in comune che il tappo salta, e allora è tutto uno spumeggiare di ricordi, come le bollicine di champagne. E non potrebbe essere altrimenti. All'epoca abitavamo nello stesso quartiere, un quadrilatero di case popolari che circonda tuttora un cortile enorme, la "corte", ed era là che passavamo la maggior parte di ore, sempre assieme, d'estate e d'inverno, all'aperto col sole al riparo dei sottopassi quando pioveva: una banda di mularìa che i genitori faticavano a richiamare a casa. E con le gesta delle nostre imprese riemergono, da un passato più remoto ancora, quelle "storie di famiglia" reiterate tante volte da diventar proverbiali: eventi insoliti, aneddoti gustosi, frammenti di vite ormai lontane che un tempo accompagnarono la nostra. Storie di donne, soprattutto, fatte di dedizione e d'amore. Come succede spesso quando le protagoniste sono loro.
La prima a saltar fuori ce la narrò molti anni fa zia Renata, una delle sorelle di papà, prendendo lo spunto da una foto. «Era venuta qua, nella nostra classe», ci disse mostrandocela, «e aveva dato un bacio proprio a me. Mi riconoscete? Io sono questa col fiocco», e ci indicò una bimbetta con le braccia incrociate "in prima", circondata da una ventina di scolari immobilizzati dal lampo di magnesio e dalla disciplina; e chi le aveva dato il bacio era stata la regina Elena in persona, consorte di quel Vittorio Emanuele che consegnò l'Italia ai fascisti, con quel che ne seguì. «Per l'occasione ci diedero un grembiulino nuovo, blu per i maschi bianco per le femmine, ma poi ce lo ripresero e io scoppiai a piangere perché mi piaceva moltissimo e avrei voluto tenerlo: quello vecchio era nero e largo, lo avevo ereditato da mia sorella Lia che era più grande di me. Eravamo in tanti, sapete, e i soldi erano pochi... »
La zia era nata nel 1917, quindi l'episodio del "bacio" risale ai primi anni Venti, poco dopo la fine della Grande guerra e al conseguente dissolvimento dell'impero asburgico: el ribaltòn, come si disse all'epoca.
«C'era miseria, c'era fame, e la nostra era una famiglia numerosa: cinque figli da mantenere coi modesti introiti della bottega di barbiere di papà, e la mamma, nonna Amelia, che per necessità aveva imparato a far di tutto, dai vestiti alle pantofole. E perfino il mestiere di papà quando era stato richiamato al fronte. All'epoca io non ero ancora nata, lo seppi da mio fratello Alfredo che allora aveva undici anni. E a proposito di mio fratello, vi racconto un episodio che mostra di che tempra fosse fatta la nonna... »
Nonna Amelia... come non saperlo? La colonna della famiglia, una di quelle intrepide triestine che in tempo di guerra dovettero sostituirsi al capofamiglia, ma che non di rado ne ricoprivano il ruolo anche in tempo di pace. Vere femministe ante litteram, e gli aneddoti su di lei si sprecano. Questo che rievochiamo è forse il più antico, riguarda quel nostro lontano passato di italiani sotto l'impero austroungarico, che ebbe una sua esclusiva, originale identità, ed eventi e conflitti spesso tragici. E certe volte, come in questo caso, un lieto fine.
«Era l'inizio del 1903, e da un mese era nato Alfredo, il primogenito della nonna, quando lei, non si sa come, riuscì a salire a bordo della nave appena ormeggiata in porto, dove nonno Pino, il suo "promesso" - come si diceva allora, era imbarcato per il lunghissimo servizio di leva. E ci andò portando il figlio neonato. "Xe ora che lo mantegni Franz Josef" intimò all'esterrefatto marinaio corso a sbarrarle la strada, e senza esitare gli mollò tra le braccia il piccino in fasce. Un gesto provocatorio, naturalmente, fatto per destar scalpore e richiamare l'attenzione sul suo caso. Un obiettivo che nonna Amelia centrò in pieno. Lei e il nonno non si erano ancora potuti sposare, e lui, in navigazione da mesi e mesi, era del tutto all'oscuro di quella nascita; e prima di concludere la ferma e dare un nome al figlio, nonché il pane e il companatico, ne sarebbero dovuti passare ancora così tanti che il bimbo faceva in tempo a camminare, parlare e far di conto. Ma la marina austroungarica aveva un cuore, oltre che un regolamento, e abbonò i rimanenti trenta a quel giovane marinaio divenuto padre. Col patto che quanto prima regolarizzasse l'unione, è chiaro».
Non tutte le donne della famiglia erano così audaci, e per contrasto mi viene in mente la mite prozia Adalgisa. Anche lei, come nonna Amelia, aveva attraversato gli anni difficili delle due guerre, ma a differenza dell'altra, "protagonista" per natura, li aveva attraversati in sordina, senza quasi farsi notare. Però - ma questo l'ho capito dopo, con non meno coraggio. "Zia Cisa", come la chiamavamo noi, era una delle quattro sorelle di nonna Italia, la nostra nonna materna, e l'unica a non essersi sposata. Fin da giovanissima aveva lavorato in una famosa sartoria del centro, conquistandosi con gli anni una posizione di prestigio; ma quando l'anziana madre fu colpita da un ictus che la rese paralitica, non esitò a licenziarsi per assisterla. Con tanta abnegazione e tanto amore che l'invalida visse per altri trent'anni e passa: troppi per riprendere l'antico lavoro, e pure per trovare marito. E così era rimasta senza reddito e "zitella", come si dice tuttora in modo vagamente spregiativo: o peggio, nel nostro rude dialetto popolare, puta vecia. Per questi motivi zia Cisa era aiutata economicamente da tutta la famiglia, e lei ricambiava con dei lavoretti di cucito, badando nel frattempo a noi bambini.
Erano i primi anni Cinquanta, anni ancora magri, e i "lavoretti" consistevano, con qualche rara eccezione, in orli da allungare, cappotti da rivoltare, rattoppature e rammendi. Ma lei, che un tempo era stata "sarta rifinita", come amava definirsi, lo faceva volentieri, senza compiangersi né recriminare il passato, di cui peraltro conservava ricordi favolosi che le piaceva condividere con noi. Mi sembra ancora di vederla davanti alla nostra vecchia Singer, il piede sul pedale, la mano sapiente sotto l'ago, mentre ci parlava della "Casa" in cui aveva lavorato in gioventù. «Sapeste le toilettes che uscivano dalla Casa!» raccontava entusiasta, e sotto i nostri occhi ecco sfilare abiti sfarzosi, mises dai esotici, perfino fantastici costumi di carnevale per quei veglioni che lei, passando al dialetto, chiamava la cavalchina. E ne parlava senza un filo d'invidia per le "signore" a cui erano destinati, grata alla sorte di averle concesso di vivere, sia pur di riflesso, simili splendori.
Ma la mite "zitella" vissuta di vita riflessa, quasi che la sua modesta persona non ne valesse una propria, all'occasione sapeva pure essere ironica, come mostra questo aneddoto. A un'amica che un po' malignamente le domandava come mai, unica delle sorelle, non avesse trovato il suo "principe azzurro", lei rispose maliziosa in dialetto: «Quel azuro lo gavevo anca trovado, cocola. Pecà che a mi el me piaseva verde».
«A proposito di principi azzurri» interviene mia sorella, «ricordate la storia d'amore di Rinuccia?» Ce la ricordiamo eccome, e ci ricordiamo benissimo di Caterina, detta Rinuccia, la più bella ragazza della corte, primogenita di quel Salvatore Vitiello venuto dal sud che aveva sposato una nostra parente; "la pecora nera della famiglia", come la chiamavano i "grandi" quando parlavano di lei, senza peraltro mai farne il nome davanti a noi "piccoli": precauzione del tutto inutile perché noi, scafati quali eravamo, sapevamo perfettamente a chi si riferivano.
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