Quando nonna Amalia minacciò di lasciare il neonato alle cure di Franz Josef

Dall’album di famiglia escono tanti ritratti femminili. Donne d’altri tempi che non avevano timore dei regolamenti della Marina austroungarica 

TRIESTE Le occasioni d'incontrarci tutti assieme, con mia sorella e mio fratello e i numerosi cugini, in questi ultimi anni si son fatte più rare: sia per motivi logistici - alcuni non vivono più a Trieste, sia perché invecchiando si diventa un po' orsi. Ma oggi è successo, e dopo gli abbracci e i convenevoli di rito - quanto tempo, come stai, che piacere - basta un richiamo alla nostra infanzia in comune che il tappo salta, e allora è tutto uno spumeggiare di ricordi, come le bollicine di champagne. E non potrebbe essere altrimenti. All'epoca abitavamo nello stesso quartiere, un quadrilatero di case popolari che circonda tuttora un cortile enorme, la "corte", ed era là che passavamo la maggior parte di ore, sempre assieme, d'estate e d'inverno, all'aperto col sole al riparo dei sottopassi quando pioveva: una banda di mularìa che i genitori faticavano a richiamare a casa. E con le gesta delle nostre imprese riemergono, da un passato più remoto ancora, quelle "storie di famiglia" reiterate tante volte da diventar proverbiali: eventi insoliti, aneddoti gustosi, frammenti di vite ormai lontane che un tempo accompagnarono la nostra. Storie di donne, soprattutto, fatte di dedizione e d'amore. Come succede spesso quando le protagoniste sono loro.

Al cimitero di Sant’Anna nacque la storia tra il signor Malalan e Betty
Gianluca Chicconi interpreta la storia di oggi


La prima a saltar fuori ce la narrò molti anni fa zia Renata, una delle sorelle di papà, prendendo lo spunto da una foto. «Era venuta qua, nella nostra classe», ci disse mostrandocela, «e aveva dato un bacio proprio a me. Mi riconoscete? Io sono questa col fiocco», e ci indicò una bimbetta con le braccia incrociate "in prima", circondata da una ventina di scolari immobilizzati dal lampo di magnesio e dalla disciplina; e chi le aveva dato il bacio era stata la regina Elena in persona, consorte di quel Vittorio Emanuele che consegnò l'Italia ai fascisti, con quel che ne seguì. «Per l'occasione ci diedero un grembiulino nuovo, blu per i maschi bianco per le femmine, ma poi ce lo ripresero e io scoppiai a piangere perché mi piaceva moltissimo e avrei voluto tenerlo: quello vecchio era nero e largo, lo avevo ereditato da mia sorella Lia che era più grande di me. Eravamo in tanti, sapete, e i soldi erano pochi... »

Ho buttato via il Bignami del primo incontro e sono venuto a cercarti
I protagonisti immaginati da Gianluca Chicconi


La zia era nata nel 1917, quindi l'episodio del "bacio" risale ai primi anni Venti, poco dopo la fine della Grande guerra e al conseguente dissolvimento dell'impero asburgico: el ribaltòn, come si disse all'epoca.

«C'era miseria, c'era fame, e la nostra era una famiglia numerosa: cinque figli da mantenere coi modesti introiti della bottega di barbiere di papà, e la mamma, nonna Amelia, che per necessità aveva imparato a far di tutto, dai vestiti alle pantofole. E perfino il mestiere di papà quando era stato richiamato al fronte. All'epoca io non ero ancora nata, lo seppi da mio fratello Alfredo che allora aveva undici anni. E a proposito di mio fratello, vi racconto un episodio che mostra di che tempra fosse fatta la nonna... »

Davide, il Ringo del Nebraska da cui la nonna mi ha insegnato a scappare
I protagonisti del racconti nei disegni di Gianluca Chicconi


Nonna Amelia... come non saperlo? La colonna della famiglia, una di quelle intrepide triestine che in tempo di guerra dovettero sostituirsi al capofamiglia, ma che non di rado ne ricoprivano il ruolo anche in tempo di pace. Vere femministe ante litteram, e gli aneddoti su di lei si sprecano. Questo che rievochiamo è forse il più antico, riguarda quel nostro lontano passato di italiani sotto l'impero austroungarico, che ebbe una sua esclusiva, originale identità, ed eventi e conflitti spesso tragici. E certe volte, come in questo caso, un lieto fine.

«Era l'inizio del 1903, e da un mese era nato Alfredo, il primogenito della nonna, quando lei, non si sa come, riuscì a salire a bordo della nave appena ormeggiata in porto, dove nonno Pino, il suo "promesso" - come si diceva allora, era imbarcato per il lunghissimo servizio di leva. E ci andò portando il figlio neonato. "Xe ora che lo mantegni Franz Josef" intimò all'esterrefatto marinaio corso a sbarrarle la strada, e senza esitare gli mollò tra le braccia il piccino in fasce. Un gesto provocatorio, naturalmente, fatto per destar scalpore e richiamare l'attenzione sul suo caso. Un obiettivo che nonna Amelia centrò in pieno. Lei e il nonno non si erano ancora potuti sposare, e lui, in navigazione da mesi e mesi, era del tutto all'oscuro di quella nascita; e prima di concludere la ferma e dare un nome al figlio, nonché il pane e il companatico, ne sarebbero dovuti passare ancora così tanti che il bimbo faceva in tempo a camminare, parlare e far di conto. Ma la marina austroungarica aveva un cuore, oltre che un regolamento, e abbonò i rimanenti trenta a quel giovane marinaio divenuto padre. Col patto che quanto prima regolarizzasse l'unione, è chiaro».

La mail della moglie tradita è una vendetta postuma sul Viale dei Glicini
I protagonisti immaginati da Gianluca Chicconi


Non tutte le donne della famiglia erano così audaci, e per contrasto mi viene in mente la mite prozia Adalgisa. Anche lei, come nonna Amelia, aveva attraversato gli anni difficili delle due guerre, ma a differenza dell'altra, "protagonista" per natura, li aveva attraversati in sordina, senza quasi farsi notare. Però - ma questo l'ho capito dopo, con non meno coraggio. "Zia Cisa", come la chiamavamo noi, era una delle quattro sorelle di nonna Italia, la nostra nonna materna, e l'unica a non essersi sposata. Fin da giovanissima aveva lavorato in una famosa sartoria del centro, conquistandosi con gli anni una posizione di prestigio; ma quando l'anziana madre fu colpita da un ictus che la rese paralitica, non esitò a licenziarsi per assisterla. Con tanta abnegazione e tanto amore che l'invalida visse per altri trent'anni e passa: troppi per riprendere l'antico lavoro, e pure per trovare marito. E così era rimasta senza reddito e "zitella", come si dice tuttora in modo vagamente spregiativo: o peggio, nel nostro rude dialetto popolare, puta vecia. Per questi motivi zia Cisa era aiutata economicamente da tutta la famiglia, e lei ricambiava con dei lavoretti di cucito, badando nel frattempo a noi bambini.

E allo stadio Grezar si gioca la partita del sesso da Leopardi a Rocco Siffredi
La storia interpretata da Gianluca Chicconi

Erano i primi anni Cinquanta, anni ancora magri, e i "lavoretti" consistevano, con qualche rara eccezione, in orli da allungare, cappotti da rivoltare, rattoppature e rammendi. Ma lei, che un tempo era stata "sarta rifinita", come amava definirsi, lo faceva volentieri, senza compiangersi né recriminare il passato, di cui peraltro conservava ricordi favolosi che le piaceva condividere con noi. Mi sembra ancora di vederla davanti alla nostra vecchia Singer, il piede sul pedale, la mano sapiente sotto l'ago, mentre ci parlava della "Casa" in cui aveva lavorato in gioventù. «Sapeste le toilettes che uscivano dalla Casa!» raccontava entusiasta, e sotto i nostri occhi ecco sfilare abiti sfarzosi, mises dai esotici, perfino fantastici costumi di carnevale per quei veglioni che lei, passando al dialetto, chiamava la cavalchina. E ne parlava senza un filo d'invidia per le "signore" a cui erano destinati, grata alla sorte di averle concesso di vivere, sia pur di riflesso, simili splendori.

E dal quaderno degli appunti all’improvviso scivolò fuori una vecchia polaroid del ’75


Ma la mite "zitella" vissuta di vita riflessa, quasi che la sua modesta persona non ne valesse una propria, all'occasione sapeva pure essere ironica, come mostra questo aneddoto. A un'amica che un po' malignamente le domandava come mai, unica delle sorelle, non avesse trovato il suo "principe azzurro", lei rispose maliziosa in dialetto: «Quel azuro lo gavevo anca trovado, cocola. Pecà che a mi el me piaseva verde».

«A proposito di principi azzurri» interviene mia sorella, «ricordate la storia d'amore di Rinuccia?» Ce la ricordiamo eccome, e ci ricordiamo benissimo di Caterina, detta Rinuccia, la più bella ragazza della corte, primogenita di quel Salvatore Vitiello venuto dal sud che aveva sposato una nostra parente; "la pecora nera della famiglia", come la chiamavano i "grandi" quando parlavano di lei, senza peraltro mai farne il nome davanti a noi "piccoli": precauzione del tutto inutile perché noi, scafati quali eravamo, sapevamo perfettamente a chi si riferivano.

Nel regno dell’orso basta una chat per annullare il confine

Erano i primi anni Cinquanta, già citati prima, e fin dal '45 Trieste, dichiarata "Territorio Libero", era sotto l'amministrazione degli anglo-americani. La gente, passato il primo entusiasmo per la fine della guerra, non li amava, mal sopportando quella che ormai percepiva come una vera e propria occupazione; e men che meno amava il corpo di polizia istituito da loro, i cosiddetti cerini per via del casco tondo che portavano in testa, bianco come la capocchia dei fiammiferi di cera, che non esitavano a dar di manganello quando l'ostilità si faceva troppo accesa. Erano proibiti assembramenti e manifestazioni di ogni genere, e la popolazione reagiva esibendo all'occhiello coccarde tricolori e intonando a ogni occasione l'antica canzonetta patriottica dei tempi della Grande guerra, tornata in auge: Le ragazze le ragazze di Trieste/ cantan tutte cantan tutte con ardore/ o Italia o Italia del mio cuore... e quel che segue.
 
Questo, il sentimento collettivo. Altro era quello individuale, e molte "ragazze di Trieste", in barba al patriottismo, vivevano una love story più o meno segreta con un militare inglese o d'oltre oceano. E Rinuccia, come scoprimmo presto, era una di loro. I Vitiello erano la famiglia più numerosa e meno abbiente del quartiere: sette figli e solo due braccia che lavoravano, quelle del padre che faceva il fornaio, e quando in casa cominciarono ad arrivare scatolette di carne, tavolette di cioccolata e quant'altro, né lui né la moglie si domandarono da dove provenissero. Chiusero un occhio, come si dice, o meglio tutti e due. Noi ragazzini della corte, invece, li tenevamo ben aperti per spiare quella bella ragazza che usciva di casa con lo sguardo splendente, e quando li coglievamo, lei e il suo Johnny, abbracciarsi e baciarsi negli angoli bui, erano risatine e gomitate a non finire. Avevamo quell'età in cui non si è più piccoli e non ancora grandi, e il mondo degli adulti ci attrae e ci respinge, ci sembra affascinante e nello stesso tempo stupido. E quel soldato americano lentigginoso e rosso di capelli, che come ci vedeva scoppiava in una gran risata e poi ci regalava cevingùm, lo trovavamo simpatico, oltre che un po' suonato.
 
Ma un giorno cioccolata e scatolette sparirono, e con esse Johnny e il nostro chewing-gum. Rinuccia la incontravamo sempre meno, e quando capitava era un saluto distratto, come di chi ha la testa altrove. E dopo qualche mese sparì anche lei. Era andata, ci dissero, a lavorare da certi parenti in Friuli, e a poco a poco ci dimenticammo di lei e del suo 'mericàn.
 
La rividi io parecchi anni dopo, quando da tempo avevamo cambiato rione e per caso la incrociai per strada. Era con un bambino che le saltellava accanto con la buffa andatura a gamba fasùl, ma come mi fermai per salutarla, lei lo strattonò per un braccio e tirò via. Sul momento ci rimasi male, poi pensai che probabilmente non mi aveva riconosciuta: dopotutto erano passati quasi dieci anni, e all'epoca ero una mocciosa che pareva un maschiaccio... E mentre li guardavo allontanarsi - lei, una bella mora dai tratti tipicamente mediterranei, lui, un ragazzino lentigginoso e rosso di capelli - mi tornò in mente l'americano che ci regalava il chewing-gum, e la sua spavalda risata quando ci coglieva a spiarlo negli angoli bui, e com'era sparito da un giorno all'altro senza un bye-bye. E lo sguardo spento di lei, che un tempo gli andava incontro con gli occhi splendenti, povera "pecora nera" della famiglia. 
 
Si è fatto tardi, è ora di lasciarci, e ci salutiamo con la promessa che non faremo passar più tanti anni prima di rivederci. Ma se anche non fosse così e dovessimo incontrarci tra chissà quanto, so bene che nulla cambierà. Quello che ci unisce è troppo saldo per temere la lontananza e l'usura del tempo.
Con questo sentimento - e un po' di malinconia, torno nella stanza dove siamo stati assieme e comincio a far ordine. Risistemo le sedie, porto via i bicchieri, svuoto il portacenere... Sul tavolo è rimasto il vecchio album di foto che abbiamo sfogliato rievocando queste storie.
 
Lo prendo in mano e lo riapro. Qua ci sono nonna Amelia e nonno Pino davanti alla loro bottega di barbiere, più avanti una giovane Adalgisa circondata dalle sue lavoranti. Vado oltre e trovo la foto di classe di zia Renata, dove lei è quella "col fiocco", e nella foto accanto è con la sorella "più grande" da cui ereditava i grembiuli di scuola, la sorellina piccola e i due fratelli maggiori. Il ragazzo che guarda serio serio l'obiettivo dieci anni dopo diventerà mio padre; l'altro, un giovanotto eretto e fiero, è quell'Alfredo che nonna Amelia portò a bordo neonato e che non ho mai conosciuto: morì da eroe al comando di un sommergibile nel secondo conflitto mondiale. Sfoglio ancora, ed ecco la foto che ci ritrae in gruppo, noi mularìa della corte, durante una festa di carnevale. Siamo tutti in maschera, chi da Arlecchino, chi da moschettiere, chi da fata... tra noi svetta una Rinuccia adolescente vestita da geisha.
 
Nell'ultima pagina c'è un'unica foto, quella dei miei genitori nel giorno del fidanzamento: belli, giovani e felici. La sfioro un attimo con le dita, poi richiudo l'album e lo metto via. 
 
© RIPRODUZIONE RISERVATA

 

Riproduzione riservata © Il Piccolo