Quando la futura console sfidava la cortina di ferro

di LILLI GORIUP
Nel 1956 l’ambasciatore sovietico a Budapest, Jurij Andropov, reprimeva nel sangue la rivoluzione ungherese. Nello stesso anno, la ventenne Anna Rossi Illy sfidava i controlli guidando da Trieste a Budapest. In auto aveva la sorella e tre bambini. Andavano tutti a trovare i parenti. Oggi la signora Anna è la console di Ungheria a Trieste e la cortina di ferro non c’è più, ma la città si trova ancora su una linea che corre idealmente dal mar Baltico all’Adriatico. Trieste è la porta su un’altra Europa che sfugge alle definizioni: non più comunista, non solo slava, ma anche baltica, ebrea, magiara, tedesca, rumena, moldava, rom... Un’altra Europa che, nel capoluogo del Friuli Venezia Giulia, ha una sua voce diretta grazie al corpo consolare.
In un’ideale scorribanda nell’Europa centro-orientale, da nord a sud, Praga è la prima che si incontra. Il console della Repubblica ceca è Paolo Petiziol, settant’anni, «friulano per nascita, mitteleuropeo per cultura ed educazione». Nonché cittadino onorario della Repubblica popolare cinese. Petiziol è un economista ma di vocazione è uno storico. Negli anni Settanta ha fondato l’associazione culturale Mitteleuropa di cui è tuttora presidente. Da trent’anni intesse relazioni internazionali. Il console ha una collezione di ricordi e aneddoti: «Ma il momento più divertente è stato quando un intero gruppo musicale della Moravia si presentò all’improvviso nel mio ufficio cantando e ballando. Una festa indimenticabile. Per loro un modo di ringraziare il console e per me una commovente testimonianza di stima e affetto». Pur facendo parte del corpo consolare di Trieste la rappresentanza è aperta a Udine dal 1997 per volontà ceca.
Da Praga a Bratislava: città un tempo unite sotto un unico Stato ma, dal 1993, capitali autonome. Il consolato di Slovacchia opera a Trieste dal 1998. Il console è Miljan Todorovic, un imprenditore del Montenegro che ha fatto la Bocconi di Milano: «Il consolato è un riconoscimento arrivato grazie alla rete di rapporti commerciali che ho intessuto tra la vostra città e i paesi dell’est europeo». Un giovane console per una giovane repubblica: «Non so quante volte, all’inizio, ho recuperato la mia corrispondenza dal consolato di Slovenia, con cui la neonata Slovacchia veniva puntualmente confusa dai postini italiani. Per fortuna non accade più, la Slovacchia è un paese in forte crescita» ricorda con un sorriso.
Dopo Bratislava il Danubio si lascia alle spalle le terre degli slavi occidentali per entrare in quelle della corona di santo Stefano. Il consolato di Ungheria a Trieste è affidato a una famiglia di origine magiara che, come l’Ungheria, a Trieste ha costruito un impero. Spiega la console Rossi Illy: «Mio suocero Ferenc Illy era di Temeschburg, l’odierna Timisoara, allora asburgica. Negli anni ha però perso il contatto con le sue origini ungheresi, e credo che in casa parlasse tedesco». La console è nata a Trieste da genitori di Pola, mamma boema, papà di famiglia italiana «ma assolutamente austriaco di cultura». . Oggi ha un paio di presidenze: «Quella della fondazione e quella onoraria del consiglio d’amministrazione dell’azienda». Nel consolato, ad aiutare l’infaticabile Anna, c’è un’assistente madrelingua. L’episodio più toccante, in veste ufficiale, è stato quello dell’inaugurazione della cappella ungherese di Visintini, frazione di Doberdò, sul Carso goriziano. La chiesetta fu costruita nel 1918 dai soldati ungheresi superstiti del fronte carsico per commemorare i loro morti: «Presto fu abbandonata e adibita a usi impropri, fino al restauro, nel 2009, grazie all’associazione Amici dell’Isonzo e allo Stato ungherese. Ci fu una cerimonia bellissima. Ho 85 anni e mi ricordo ancora dov’erano le tombe una volta». Il consolato è arrivato per caso: «La proposta era stata fatta a mio figlio, che non poteva accettare, per incompatibilità. Si è quindi limitato a comunicarmi che avrei fatto la console» scherza.
Sarajevo, Belgrado o Timisoara: la strada per Podgorica passa per una delle tre. Settecento chilometri giù per i Balcani fino all’estremità meridionale delle terre slave del sud. Dall’anno scorso, il primo console del Montenegro a Trieste è Sven Bichler, imprenditore dalmata di Hvar, da quasi cinquant’anni in Friuli Venezia Giulia: da qui ha avviato la sua carriera, fino a rappresentare il gruppo Benetton nell’est Europa. Il suo ufficio sembra una galleria d’arte, la sua grande passione: un’intera parete è occupata da una sola tela che ritrae una figura femminile dal sapore metafisico. «È un’opera di Bruno Chersicla e rappresenta la fontana di piazza Unità. L’ho vista a un’esposizione al Caffè degli specchi, vent’anni fa, e mi ha folgorato. È un peccato che Trieste non gli abbia ancora dedicato una mostra» dice Bichler. Il legame tra Trieste e il Montenegro è vecchio di secoli, e lo testimonia il museo di Perast, un tempo sede di una gloriosa accademia navale: «Tra i nomi lì conservati ve ne sono molti che oggi suonano triestini doc come Tripcovich o Marovich. Molte famiglie montenegrine, operanti nel settore marittimo, si trasferirono a Trieste, soprattutto dopo l’istituzione del porto franco nel Settecento: un altro esempio sono i Deklic, titolari di una storica compagnia di navigazione». Oggi, invece, sono molti i pensionati triestini che si trasferiscono in Montenegro, per il basso costo della vita e per il clima. «Io vado in Montenegro almeno due o tre volte l’anno», dice Bichler al termine del nostro viaggio immaginario, che approda alle Bocche di Cattaro, i fiordi montenegrini della costa dalmata, patrimonio dell’Unesco. E conclude: «In un’ora di auto si passa dalla neve al mare attraversando il canyon più lungo d’Europa. Un paese cui non manca proprio nulla».
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