Quando la bora ribaltò la città con la forza di uno scappellotto

TRIESTE Quando mio padre si accomodava sul riposo dei ricordi e mi raccontava la vita, spesso gli piaceva soffermarsi nel distinguo storico di un anno, e più precisamente il 1954! Con la commozione negli occhi e l’emozione in petto, mi raccontava di come in quell’anno la nostra Trieste ritornò italiana, e col piacere alto dell’euforia mi parlava delle alabarde e tricolori al vento, i pianti di gioia che finalmente uccidevano le repressioni, gli abbracci ai liberatori, i balli in strada e i canti in gola di una folla felice, momento meraviglioso, secondo lui, tanti, tutti, la festa più bella del mondo. Trieste italiana! Ma non finiva là perché mio padre, legandosi a quel periodo continuava l’esposizione, infatti trattando la storia di quell’anno mi raccontava di quell’altro evento straordinario che toccò la nostra città, e più precisamente mi parlava della Bora, sì, la famosa Bora del 1954!

La Bora dei 160 chilometri all’ora, quella che ribaltò Trieste con la potenza degli scappellotti metereologici, una forza mai vista. Scappellotti che accesero nell’aria un festival di ombrelli e cappelli, che agitò il mare con onde alte un muro, con gli alberi prostrati al suo passaggio, con macchine e biciclette alzate e buttate negli angoli, e con la gente privata della tranquillità dei passi e scaraventata in direzione contraria. La Bora, quella Bora, imprigionò i triestini nella morsa di una terrificante confusione, e per molti, perché nasconderlo, anche con il piacere magico di un’esaltazione.

Io sono nato proprio nel 1954, e mi sento figlio della Bora, tanto che da sempre quel fenomeno mi è diventato indispensabile, per me è inconcepibile vivere senza. L’ho fatto per alcuni anni, andando a vivere in una città con poco sale e niente mare, ma soprattutto con nessun vento e nessun fischio capace di toccarmi l’urgenza di una sensibilità. Sono stati anni di cappotti malinconici, fino a quando il sopportabile è diventato insopportabile e sono scappato tornando nell’abitudine salvifica di una meravigliosa follia.
La follia della Bora “scura”, quella che proviene da est/nord–est e che inizialmente, in grande silenzio, ricopre il cielo con un buio anomalo, quasi da paura, poi arriva il campanello di una piccola depressione che ti entra in corpo e ti avvisa che tra poco scoppierà la magia, una magia che libererà i suoi polmoni e riaccenderà quel rapporto inscindibile tra vento e città. Trieste è la Bora, la Bora è Trieste, non si può farne a meno. La Bora è schiaffo, la Bora è carezza, sostegno dell’anima, momento apparentemente impossibile. Muscoli tirati, fiato in riserva, e due ali per farti trasportare dove decide il vento, è lui che batte il ritmo, mena la corsa, disegna momentaneamente la tua storia.
Un vento che soffia con mille bocche: Molo Audace, Piazza Unità, la Sacchetta, Ponterosso, via Molino a Vento, il colle di San Giusto, non c’è riparo, perché la Bora bisogna viverla in ogni suo attimo, forza, istante, energia, bisogna lasciarsi travolgere da quel fastidio che con l’abitudine diventa benessere. Finita la potenza del soffio, in un silenzio assoluto, ti senti stupendamente vivo, con addosso una voglia di stare, fare, dire, e con addosso la convinzione di una credenza popolare che dice: passata la Bora, passate tutte le malattie e malinconie.
Trieste e la “sua” Bora, proprietà assoluta. Proprietà che quando supera i suoi confini crea il disturbo di un timore. - Mai stato a Trieste? -, -Dicono tutti che è una bella città però… però c’è la Bora! -. Ecco, l’evento che per molti triestini è un orgoglio, per chi abita nella terra del “non sapere”, s’ingrandisce e diventa un passaggio difficile da affrontare.
Oggi città ha la sua storia, ogni città ha il suo equivoco. Ricordo una volta che viaggiavo nei dintorni di Ferrara, e rammento la malinconia dell’autista perché non c’era più la nebbia di una volta, basta, sparita, finita! Nonostante quel pericolo atmosferico, per me aveva assolutamente ragione, anche per me sarebbe difficile vivere senza il tormento della Bora. Tormento che è diventato sollievo, sollievo che col tempo è diventato spettacolo della vita. Penso ad esempio allo spettacolo della Bora e il mare, umori che s’incrociano, amplesso atmosferico, matrimonio meteorologico. Il vento si accende svegliando la tranquillità del mare: si toccano, affascinano, amano. Il vento soffia e il mare risponde schioccando le onde sulla pietra con gli schizzi d’acqua che diventano immortali come il ghiaccio, la schiuma bianca delle creste s’ingoia l’azzurro e le navi in rada dondolano e diventano il contorno di un quadro d’amore. Lo stupore degli occhi ringrazia e le mani gelate applaudono lo spettacolo che possiamo vivere solo noi, figli della Bora.
La Bora è uno stile di vita. La Bora è anche storia, memoria, piccoli grandi episodi, episodi che si vivono, ricordano e raccontano per tutta la vita… Avevo vent’anni e facevo il piccolo trasportatore, piccolo in tutti i sensi perché avevo un’Ape 50, quella senza targa, e consegnavo taniche di kerosene a domicilio. Era un giorno di Bora ed io stavo effettuando le mie consegne nel rione di San Giacomo, una fatica! Piani di scale, le taniche trasportate controvento e con un gelo che mi congelava la sensibilità delle dita. Era pomeriggio, avevo terminato il turno e stavo tornando in deposito, e contro tutti consigli che mi raccomandarono di non frequentarla quella strada per via della Bora cattiva che ci soffiava dentro, imboccai la via Molino a Vento. Feci giusto una decina di metri e poi… Poi all’improvviso un treno invisibile a cento e passa all’ora mi colpì, sollevò, facendomi capottare per non so quante volte. Accorsero Croce Rossa e pompieri e con cautela mi tirarono fuori dall’abitacolo, per fortuna andò tutto bene, un po’ di contusioni sparse sul corpo e un bel sorriso largo sul viso, avevo sfidato la Bora e avevo felicemente perso. E poi c’è quell’altro episodio successo all’interno dell’ex manicomio di San Giovanni.
Era mattina, pioveva, c’era la Bora, e io avevo inaugurato il primo ombrello nuovo della mia vita: telaio rinforzato, tessuto nero, manico in madreperla, apertura automatica, marca inglese. Ero orgoglioso e lo portavo con fierezza quell’ombrello, troppo forse, tanto che una folata di vento a forma di vento me lo strappò dalle mani e sollevò nell’aria mescolandolo con le altre coperture che giravano in cielo. Ancora oggi, a distanza di anni, quando i cappelli e gli ombrelli volano, m’illudo di ritrovare il mio orgoglio, quello col telaio rinforzato, manico in madreperla, apertura automatica…
La Bora è il vento delle emozioni forti e dei respiri sospesi, potente come la corrente elettrica e indispensabile come una voglia di viverlo, sa essere lo schiaffo della sorpresa e la carezza della nostalgia, vento permaloso che concede il suo piacere soltanto a chi lo sa apprezzare, vivere, amare. La Bora è proprietà assoluta dei triestini, tutti gli altri la possono ipotizzare, temere e non comprendere il suo valore e la sua bellezza. La Bora è una battaglia senza armi, ma anche, come scriveva Umberto Saba, la dolcezza di una poesia… Conosco la bora, / chiara e scura, / la detesto quando scende fuori misura / con cielo sereno. / Amo l’altra / che ha una buia violenza cattiva. / Io devo recuperare la bora / oppure qui affondare nel mio paese natale / nella mia Trieste, / nella mia Trieste triste / che amare è impossibile / e odiare anche. —
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