Quando Elsa Morante scriveva a Leonor Fini

Esce per Einaudi l’espistolario dell’autrice di “Arturo”, con le lettere che testimoniano il rapporto con l’artista triestina

Più di un saggio critico, di un’intervista o di uno studio approfondito, le lettere private di un personaggio possono aiutare a entrare nel suo universo e a far luce su alcuni aspetti delicati del suo carattere. Nel caso di uno scrittore il viaggio tra le carte personali è ancora più affascinante, anche perché possiamo venire a contatto con le scritture spontanee, dirette, quelle che non hanno subìto pressione e controllo perché non destinate alla pubblicazione.

L’epistolario di Elsa Morante, una delle voci più importanti della narrativa italiana del Novecento, rientra tra questi straordinari documenti: “L’amata. Lettere di e a Elsa Morante” (Einaudi, pag. 682, euro 30) raccoglie seicento testimonianze, per la maggior parte inedite, della corrispondenza della scrittrice, provenienti da un archivio che conta oltre cinquemila documenti.

Il lungo lavoro di selezione e di recupero delle lettere presso i destinatari è stato compiuto da Daniele Morante, nipote di Elsa, e da Giuliana Zagra, e il risultato è un’opera dal taglio storico, dove sono state privilegiate le corrispondenze significative, quelle che contribuiscono a ricostruire dettagli utili del mondo della Morante. Quasi tutti gli interlocutori presenti nel libro sono illustri intellettuali e scrittori, da Umberto Saba che nel 1953 le scrive «Tutte le vite sono, in un senso o nell’altro, delle vite mancate: l’arte è lì per soccorrere a queste mancanze. Se non ci fossero, l’arte non avrebbe senso: non corrisponderebbe più a un bisogno», ad Alberto Moravia: «Tu vorresti imprigionare ciò che non dura e passa, e questo tutti l’hanno fatto prima di te e lo faranno dopo di te. Quello che ti fa quasi impazzire nei tuoi rapporti con B. M. non è altro che l’impossibilità di quei sentimenti assoluti che invece sono possibili nell’arte ossia in una superiore realtà».

B. M. è Bill Morrow, il giovane pittore americano conosciuto da Elsa Morante nel ‘59 a New York e legato a lei da un’intensa amicizia: Morrow lascia gli Stati Uniti per trasferirsi a Roma e la scrittrice, pur non abbandonando la residenza coniugale con Moravia e il proprio studio ai Parioli, si trasferisce in una nuova casa tutta per sé in via del Babuino per stare con lui; ma tre anni dopo, tornato a New York, Morrow perde tragicamente la vita precipitando da un grattacielo.

Di questo amore e di molte altre cose la scrittrice parla con Leonor Fini nel cospicuo carteggio con l’amica artista, uno dei più sostanziosi del libro. Le due donne si erano conosciute a Roma durante la seconda guerra mondiale: le univano un’intelligenza brillante, una sincera stima reciproca e la passione per i gatti.

In una lettera del ’52 la Morante parla del ritratto fattole dall’amica: «Mi piace tanto, non solo perché è bello, ma perché c’è dentro dell’affettuosità, cioè si vede che quando lo dipingevi ti piaceva la mia faccia».

Nello stesso anno è la Morante a dedicare una poesia alla pittrice “Nella Torre San Lorenzo” che tra l’altro recita: «Poi viene Leonor. Le finestre diventano luce, le ragnatele tende preziose di nuvole e stelle, i rami secchi doppieri accesi, e la sera una grande serata; perché Leonor (come le ho detto mille volte e come non mi stancherò mai di dirle) unisce in sé due grazie: l’infanzia e la maestà».

Queste lettere hanno il merito anche di spiegare meglio alcuni aspetti della carriera dell’artista triestina, in particolare rivelano le ragioni della poca stima che, secondo Leonor Fini, la stampa e la critica italiane le riservano. Nel ’54 la pittrice è infuriata per un articolo di Giovanni Arpino che la ridicolizza: «Naturalmente tutto ciò che scrive è falso e falsato. Io non sono “poco coperta” ma copertissima in lunga vestaglia da pittura, nera (non gialla e nera) e tutti sono nudi sotto i vestiti (ma avevo il minimo di biancheria come sempre)».

Pochi anni prima c’era stata già una dubbia intervista di Marcello Venturoli che, secondo Fini, aveva travisato le sue parole: ora anche altre penne illustri la fanno infuriare a cominciare da Indro Montanelli, che pure si professava suo amico, e Nantas Salvataggio, “autore,” come scrive Fini a Morante, «del fetidissimo (il più fetido che mai mi fu dedicato) pezzo nel Giornale d’Italia. Grande scrofa è pure la Mandiargues – il Mandiargues lui nevrotico avvelenato debole e demente – incredibile di pensare che tanto mi adorava – il fatto di avermi perduta ha riesumato in lui bugie tortuosissime di tutti i generi».

La delusione della pittrice è aumentata dalla consapevolezza che amici influenti come Carlo Levi, Tommaso Landolfi e Moravia non prenderanno le sue difese, si sfoga di ciò con la Morante che le promette: «Io, appena riavrò autorità (se tu me lo permetti e ti farà piacere) voglio pubblicare intorno a te uno scritto dove dirò tutto quello che penso di te. Seppure sarà in uno stile diverso dalle lettere che ti scrivo, le quali non sono scritte in uno stile pubblico ma privato (e pubblicare cose di quello stile e sarebbe come pubblicare le proprie lettere d’amore) la sostanza di quello che penso di te sarà quella e quindi puoi immaginarti come sarà il mio articolo. E lo pubblicherò sul più grande giornale o rivista di tutta Italia – e siccome il mio nome allora sarà più importante di adesso, questo articolo sarà importante».

Comunque Fini è risoluta: «Veramente non farò mai nulla in Italia né mostre né altre manifestazioni» e mantiene la parola, mentre Morante sembra prevedere il successo dei suoi futuri libri: le scrive l’amica nel ‘57: «La tua “Isola di Arturo” è uno dei libri più meravigliosi che ho mai letto” e nel ’74: ““La Storia” è un libro straordinario che non si può neanche chiuderlo nella parola libro».

In queste lettere, chiaramente destinate ad amici e non pensate quindi per la pubblicazione, scritte a mano con cura, arricchite di disegni (chi scrive ha potuto sfogliare quelle conservate nell’Archivio Leonor Fini di Parigi), si possono rinvenire numerosi tratti dello stile e della poetica di Elsa Morante: l’eleganza nel raccontare gli eventi, la vocazione favolosa e quasi magica del suo sguardo bambino, un allontanamento a volte angosciante dalla realtà e la solitudine che avvolge l’autrice, l’evocazione di figure e scene simboliche, l’indagine psicologica delle persone descritte e dei destinatari, il fascino sottile delle parole scelte.

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