Primo Levi e il segreto dei partigiani fucilati

Nel libro “Partigia” pubblicato da Mondadori Sertgio Luzzato ricostruisce un episodio oscuro della Reistenza
Di Alessandro Mezzena Lona

di Alessandro Mezzena Lona

Il «segreto brutto» lo aveva rivelato lui stesso. Primo Levi, lo scrittore sopravvissuto all’inferno di Auschwitz, l’autore di quel capolavoro che è “Se questo è un uomo”, ne aveva parlato un un libro pubblicato nel 1975. “Il sistema periodico”, così si intitolava, raccontava in un paio di pagine la sua esperienza da partigiano. Interrotta molto presto dall’arresto, dal lungo viaggio verso il lager. Arrivati dopo la condanna di due giovani compagni che facevano parte di una delle prime bande che operavano in val d’Ayas. Lassaì, tra le montagne della Val d’Aosta. La fucilazione era il segreto brutto, dettata «dalla nostra coscienza». Da chi comandava, allora, quel piccolo gruppo di ribelli.

E il «segreto brutto» di Levi ha portato sulle tracce di questo piccolo, oscuro episodio della Resistenza, uno degli storici italiani più preparati. Sergio Luzzatto, che insegna Storia moderna all’Università di Torino ed è autore di libri importanti come “L’autunno della rivoluzione”, “Il corpo del duce”, “Padre Pio”, “La crisi dell’antifascismo”, “Il crocifisso dfi Stato”, ha scavato a lungo negli archivi. Ha interrogato le carte scritte ed è andato a cercare i testimoni ancora viventi. Fino a distillare da questa lunga ricerca un saggio che si legge come un romanzo: “Partigia” (pagg. 373, euro 19,50) pubblicato da Mondadori.

Grande affresco sull’inizio della rivolta contro il fascismo, “Partigia” non è solo un’indagine appassionante e puntuale sulla morte di Fulvio Oppezzo e Luciano Zabaldano. Due giovani ribelli che avevano forse confuso «le avventure dei picari con le imprese dei banditi e le imprese dei banditi con le lotte dei partigiani». E che finirono fucilati alle spalle, con il «metodo sovietico» come si diceva allora, in una «spettrale alba di neve» dai loro stessi compagni. Tra cui c’era anche Primo Levi, su cui il ricordo di quell’episodio pesò per tutta la vita con l’insopportabile tormento della colpa. Anche se la sentenza di morte era stata emessa nel rispetto di una severa disciplina. «Adesso eravamo finiti, e lo sapevamo: eravamo in trappola, ognuno nella sua trappola, non c’era uscita se non all’ingiù», annoterà lo scrittore nel “Sistema periodico”.

Il libro si spinge più in là. A raccontare un’Italia di sognatori e traditori, di spie e doppiogiochisti. Che non ha saputo fare i conti con il passato. E che ancora oggi fa fatica a leggere la Storia con un po’ più di serenità, viste le polemiche accesissime che hanno accompagnato l’uscita in libreria di “Partigia”.

«Da molto tempo pensavo a questa storia - dice Sergio Luzzatto -. E proprio andando a fare una gita con i miei figli in Val d’Ayas, quattro anni fa, ci siamo trovati di fronte a un monumento che ricorda la deportazione ad Auschwitz di Primo Levi. Spiegando a loro le circostanze dell’arresto dello scrittore, mi sono reso conto che non ne sapevo poi molto».

Così ha pensato, da storico, di mettersi a cercare informazioni?

«Ho scoperto subito che si sapeva molto poco non solo dell’arresto di Levi. Ma anche della storia dei due giovani partigiani in quella zona della Val d’Aosta nell’autunno del 1943. E che, tra l’altro, sono stati integrati nel martirologio della Resistenza. Uno a Torino, l’altro a Cerrina Monferrato, che ha dedicato al tenente Fulvio Oppezzo non solo la piazza, ma anche la scuola elementare e la media».

Li considerano degli eroi, sono stati fucilati come banditi.

«Non ho voluto fare dello scandalismo con questo libro. Né su Primo Levi, né sulla. Resistenza. Il sacrificio di Fulvio Oppezzo e Luciano Zabaldano, benché uccisi da fuoco amico, non toglie loro la condizione di caduti della Resistenza. Anche perché agli inizi, la ribellione contro il fascismo era davvero molto confusa. E molti giovani, per immaturità, per inesperienza, hanno ecceduto nel muovere i primi passi al limite del banditismo. Poi, i loro superiori gerarchici hanno inscenato una reazione forse smisurata per punire i loro errori».

La letteratura aveva già raccontato storie come questa.

«Se pensiamo ai grandi libri sulla Resistenza, quelli di Beppe Fenoglio, di Luigi Meneghello, ma anche “Il sentiero dei nidi di ragno” di Italo Calvino, non avevano fatto mistero su alcuni episodi bui della guerra civile. La storiografia è arrivata con qualche decennio di ritardo».

Allora ha ragione Giampaolo Pansa?

«No, perché sono ormai vent’anni che gli storici raccontano, senza pregiudizi, quella che è stata la Resistenza vera. Certo, c’è stata tutta una retorica di parte che ha cristallizzato, imbalsamato la Resistenza. Regalando argomenti di critica a chi vorrebbe raccontare quegli anni soltanto in maniera negativa. Però Pansa sbaglia».

Quando dice che gli Istituri per la storia della Resistenza non lavorano a favore della verità?

«Posso dire che in particolare nel Nordest, ma anche in altre zone, gli storici dei vari Istituti stanno lavorando molto bene. Soprattutto dopo che Claudio Pavone ha pubblicato il suo fondamentale saggio sulla guerra civile. Una pietra miliare da cui sono ripartiti molti colleghi. Che hanno trovato negli archivi storie complicate, spesso piene di segreti brutti. Del resto, le guerre civili sono così...».

Nel Nordest c’è stato il massacro di Porzûs. E poi la tragedia delle foibe...

«Storie decisamente più gravi e macchiate del sangue di molte più persone rispetto a quella che racconto io. Credo che sia importante separare la Storia della memoria. E se, come cittadini, dobbiamo essere enormemente grati a chi ha combattuto la guerra per riconsegnare l’Italia alla libertà, da intellettuali non dobbiamo lasciare margini di ambiguità. E leggere i documenti d’archivio con la serietà e l’onesta di chi deve guardare al passato senza avere in testa una versione dei fatti già definita».

“Il Giornale”, “Libero” hanno salutato il suo libro con grande enfasi.

«Mi fa piacere e, da un certo punto di vista, anche mi dispiace. Perché altri giornali, che invece io sento molto più vicini, hanno organizzato una specie di grancassa di voci contrarie. Anche se molti dei miei denigratori non hanno fatto in tempo e leggere “Partigia”».

Difficile fare i conti con il passato?

«Ho cercato di far capire che non si può studiare la Resistenza fermandosi al 25 aprile. Per questo ho voluto raccontare anche quello che è successo dopo la fine della guerra alle spie fasciste, a certi personaggi che stavano dalla parte della Repubblica di Salò. La giustizia è stata rivoluzionaria solo nella prima fase del dopoguerra. Ha condannato e eliminato i fascisti in maniera sbrigativa, senza andare troppo per il sottile. Potrei parlare di un periodo giacobino».

Poi, però, i processi hanno subito degli aggiustamenti...

«All’epurazione immediata dei fascisti si è sostituita la logica del diritto. E allora non deve stupire se la spia Edilio Cagni e il prefetto Cesare Augusto Carnazzi l’hanno fatta franca. Quest’ultimo ha raccolto durante il processo la testimonianza di una famiglia ebrea. Pronta a giurare la sua bontà, perché aveva salvato uno dei figli dalla deportazione».

alemezlo

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