Prigionieri nel lager di Tito Esce la lista dei 16mila nomi
BELGRADO. Sedicimila prigionieri, quattrocento morti, le stime minime. Sono numeri, non inediti, che descrivono un abisso, l’abisso di Goli Otok. Ma scrivere 16mila, scrivere 400, non rende l’idea dell’orrore e della violenza cui assistette l’Isola Calva, tra il 1949 e il 1956. E non rende del tutto onore alle vittime, che sempre dovrebbero avere un nome. Ma adesso anche per il gulag di Tito, nel quale finirono a migliaia dopo la rottura del 1948 tra il Partito comunista jugoslavo e Mosca – solo perché “cominformisti” o per vendette personali ed errori burocratici e giudiziari – i nomi ci sono. Ci sono grazie alla rivista politico-culturale croata “Novi Plamen”, che di recente ha reso pubblico via Internet, «l’elenco esclusivo delle vittime» di Goli Otok, leggi delle 16.101 persone che vi sarebbero state rinchiuse tra il 1946 e il 1956. In basso, sui documenti, il timbro degli Archivi di Stato croati, da cui la lista è uscita per giungere nelle mani del magazine di Zagabria. Elenco compilato all’inizio degli Anni Sessanta dall’Udba, i servizi di sicurezza di Tito, rigorosamente in ordine alfabetico. Primo della lista, Mate Abaza, nato il 17 febbraio 1922, arrestato il 24 novembre 1950 e liberato più di un anno dopo, a tre giorni dal Capodanno del 1952. Nell’ultima pagina, Gojko Zuvela, nato nel maggio del 1921, fermato la vigilia di Natale del 1952, tornato libero solo due anni più tardi. Fra le date di nascita, arresto e rilascio, un codice numerico - per gli italiani era il 33 - che indicava l’etnia del prigioniero. In un’altra lista, divulgata da “Novi Plamen” a fine novembre, erano state invece enumerate, con nome e cognome, quelle vittime che, fra sedicimila sfortunati «informbirovci» costretti nell’isola per essere rieducati a furia di percosse e lavori forzati, non riuscirono a uscirne vive. In tutto, oltre 440, trecento civili, 112 militari. “Novi Plamen”, che ha giustificato la pubblicazione della lista con la volontà di chiudere il discorso e di interrompere il circolo vizioso di «speculazioni» sul numero dei detenuti e dei morti nell’isola, andato avanti per decenni anche col fine, secondo il giornale – orientato a sinistra – di «screditare l’intera epoca del socialismo jugoslavo». Fra i nomi sulla lista «ho trovato mio nonno», «anch’io, lì ha scavato pietre per cinque anni e non è tornato», «finalmente si fanno i nomi», alcune fra le timide reazioni sul web balcanico alla notizia. Ma che valore storiografico possono avere quelle liste? «I numeri da lei menzionati, e fra questi ci sono anche più di 800 donne, sono esattamente quelli che cito nei miei libri», risponde al telefono Giacomo Scotti, fra i massimi conoscitori di quell’abisso, primo a rivelarne l’esistenza in Italia. Finora «i nomi pubblicati erano quelli degli italiani, fiumani, quarnerini, istriani, monfalconesi, goriziani» finiti a Goli Otok dopo essere emigrati in Jugoslavia per costruire il socialismo. Oggi «per la prima volta, vengono pubblicati nella ex Jugoslavia» i nomi di tutti gli altri «finiti a Goli Otok e nelle altre isole intorno a Zara, a San Gregorio e sulla terraferma, in galere vere e proprie», conferma Scotti. Scotti che poi ricorda che, dei 400 morti e oltre, «una decina erano italiani», mentre nell’inferno dell’isolotto spoglio e arido «ne passarono circa trecento». Fra i sopravvissuti, in molti ebbero remore a parlare dell’esperienza del lager, dopo esserne usciti, anche dopo la fine della Jugoslavia e dopo il termine del loro isolamento in libertà, spiati da polizia e servizi perché non rivelassero l’esistenza dei lager di Tito. Remore in parte originate dalla «vergogna di essere stati costretti a picchiare, tormentare e martirizzare» i propri compagni di sventura, una maniera subdola e crudele per umiliare i prigionieri al livello di animali. Ma «dicevano», raccontavano, puntualizza poi Scotti, anche se «non dicevano tutto». Numeri, quelli della lista segreta e quelli di Scotti, confermati anche da Zorica Marinkovic, ricercatrice serba e organizzatrice della mostra “U ime naroda”, tema la repressione e i crimini del regime in Serbia e Jugoslavia compiuti tra il 1944 e il 1953. Repressione che, in tutto il Paese, interessò almeno centomila persone, «50-60mila finirono nelle varie prigioni su tutto il territorio jugoslavo». Di questi, «16.500» furono tradotti «a Goli Otok», secondo «i dati che abbiamo ricavato dai documenti della polizia segreta», rivela Marinkovic. Anche i numeri sui decessi corrispondono, anche se bisogna ricordare «che la cifra potrebbe essere leggermente superiore, dato che le persone morte a Goli Otok venivano sepolte in luoghi sconosciuti o gettate in mare», per occultare le prove dell’oppressione e della durezza del regime, la vergogna di quell’alba del socialismo jugoslavo.©RIPRODUZIONE RISERVATA
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