Porto vecchio: il futuro di Trieste al bivio
Imprenditori, professionisti e manager discutono sull’intervento decisivo
Con uno di quei curiosi testacoda che solo la lingua italiana sa regalare, Porto “Vecchio” è in realtà un cardine del “nuovo”, del futuro della città. Le ultime accelerazioni amministrative – per alcuni doverose e per altri frettolose – consegnano definitivamente a Trieste un tema che deciderà ragionevolmente gli assetti urbanistici, economici, sociali dei prossimi cinquant’anni. Come minimo. Si impone un dibattito che potrà e dovrà essere politico, ma che investe e riguarda tutta la città, nelle sue componenti più ampie. Un dibattito aperto dalle notizie che sono arrivate dall'amministrazione comunale, poi proseguito con interviste e interventi; e poi sviluppatosi con la "lettera aperta" rivolta al sindaco dall'imprenditore Federico Pacorini, che ha espresso una serie di critiche e che ha invocato una maggiore partecipazione. Il Piccolo vuole ospitare questa agorà su un tema decisivo, ma anche promuoverla e sollecitarla. A iniziare da manager, professionisti, imprenditori, ex magistrati che, in questo primo approfondimento sulle colonne del giornale, cercano di dare il loro contributo al dibattito.
Antonio Marano (presidente del Trieste Airport)
«Mirare all’Europa e ispirarsi ai grandi scali»
Copiare non è necessariamente una cosa negativa, tanto più se i modelli da cui trarre ispirazione sono dei veri fuoriclasse. I porti di Barcellona e di Valencia sono diventati esempi di riqualificazione urbana, quello di Amburgo ha saputo integrare una storia secolare con tecnologie futuristiche, il waterfront di Liverpool ospita oggi locali e ristoranti attorno a tre dei più importanti musei della città. Il Porto Vecchio di Trieste? «Me lo immagino bello: retail, beach, hospitality, congressi e cultura. Mobilità sostenibile, coerenza progettuale».
Il presidente del Trieste Airport Antonio Marano dice di sé di essere un «grande estimatore del copiare», e per quei sessantasei ettari di scalo prende a esempio i cantieri europei dove pubblico e privato, cittadinanza e componenti politiche diverse hanno saputo lavorare in sinergia. «Porto Vecchio – riflette Marano – me lo immagino simile a queste città: una linea integrata con il resto delle Rive, coerente da Miramare fino alla Lanterna. Con una visione di insieme chiara».
L’annuncio del project financing ha fatto irruzione nella cronaca estiva in modo fulmineo, con accelerazioni amministrative lette diversamente da destra a sinistra.
Momento giusto, troppo affrettato? «Il progetto è importante e – continua Marano – merita la sua attenzione, con i giusti tempi di riflessione prima di metterlo in atto. Il fatto che il Porto Vecchio sia rimasto fermo per decenni è un peccato ma – precisa – partire proprio adesso permetterà di fare un intervento di qualità».
Per farlo occorrerà assimilare e mettere in pratica gli insegnamenti offerti dalle altre realtà internazionali negli ultimi anni, e calamitare capitali e attenzioni un tempo impensabili per Trieste. «Ad esempio, su modello degli scali europei – dice Marano – si potrebbe immaginare un intero quartiere della città senza auto. Il leitmotiv dell’Europa è la sostenibilità: in Porto Vecchio vedrei una mobilità lenta, con utilizzo diffuso del mezzo pubblico». Tutta l’area andrà ripensata e utilizzata in «modo intelligente»: nuovi uffici, residence, nuove modalità di trasporto e ospitalità. «Fondamentale – osserva – capire se verranno realizzati nuovi terminal crociere».
Il partenariato pubblico-privato può essere una modalità. «Ma a fronte di un privato che investe – dice il numero uno dell’aeroporto di Ronchi – dovrà esserci un pubblico capace di monitorare il rispetto del contratto di lavoro e delle tempistiche».
Il nome convince («il proponente Costim lo conosco: ritengo siano persone serie, di certo di qualità», precisa), ma occorrerà che dietro la cabina di regia ci sia una squadra unita fuori e – forse soprattutto – dentro l’aula, pronta a collaborare in un progetto più importante di mille altri interessi. «I cantieri in Porto Vecchio – osserva Marano – sopravvivranno a questa e altre legislature: una consiliatura non è sufficiente perché tutti i progetti vengano realizzati, occorre unità di intenti».
La pianificazione sarà determinante come anche la partecipazione, lo scriveva anche Federico Pacorini nella sua lettera aperta al sindaco. «In un progetto di così ampio respiro – osserva – il public debate può solo che aumentare l’appoggio per l’amministrazione, e forse – aggiunge – levare qualche dubbio anche a Pacorini». Annunci a microfoni aperti, comunicati stampa e accordi storici. Adesso però serve mettere nero su bianco piano di interventi, costi e impatti sulla fruibilità del territorio. In modo trasparente. Ispirarsi ai modelli partecipativi francesi e allargare il confronto il più possibile. «Adesso – conclude Marano – è il momento di aprire i libri e spiegare i progetti: la popolazione è preparata ad affrontare questo dibattito, il Porto Vecchio è di tutti». —
Giovanni Basilisco (presidente dell’Ordine degli ingegneri)
«Andrà integrato alle altre zone di Trieste»
L’ultimo atto dei cantieri che trasformeranno il Porto Vecchio sarà spostare definitivamente il baricentro di Trieste e il suo modo di abitarla, da un centro affollato a dismisura a un’area rimasta deserta per decenni in cui realtà private intendono adesso creare residence, palestre, centri benessere e ristoranti. Altri servizi. Altre attrazioni.
«Riaprire il Porto Vecchio riposizionerà gli equilibri dell’intera città», il ragionamento del presidente dell’ordine degli ingegneri triestino Giovanni Basilisco è analitico. Nel prossimo futuro all’estensione – talvolta iper sfruttata – della città si sommeranno altri sessantasei ettari ex doganali da utilizzare con destinazioni diverse.
«A quel punto – riflette – non conteranno tanto i servizi che i privati intendono crearci, ma quale intervento pubblico è previsto per il resto di Trieste». È una città in controtendenza, dice Basilisco: tra le ultime in Europa a presentare di un porto interamente libero, chilometri lineari a disposizione e un impegno a edificarci per milioni di euro in un momento di incertezze economiche che rendono non schivabile il coinvolgimento del privato. «Il project financing – precisa l’ingegnere – arriva come una novità importante, di certo significativa: il partenariato sta prendendo piede a livello nazionale, e nei prossimi anni diventerà inevitabilmente uno strumento chiave».
I primi cantieri in Porto Vecchio sono stati finanziati dal pubblico, con un impronta vincolata da cronoprogramma e linee guida Ue: il parco urbano coerente ai principi green, il viale monumentale da consegnare entro il 2026. L’ultimo lotto sarà concluso dai privati, quando la chiusura del Pnrr avrà ormai tolto gambe all’appalto pubblico diretto e Porto Vecchio sarà solo il primo dei tanti interventi da avviare con il project. «Tra i benefici c’è la possibilità di accorciare i tempi, e assicurare maggiori garanzie economiche: sarebbe terribile – dice Basilisco – se, dopo decenni ad attendere quest’opera, i cantieri dovessero interrompersi a metà, con un’area solo in parte riqualificata. Confido non sarà così».
Porto Vecchio, Porto Vivo – e chi lo gestirà – dovrà essere una parte integrante e non sostitutiva della città, riempita di servizi studiati su misura per chi vuole abitarla nella sua interezza: dal centro allo scalo. «Decidessi io? Locali e aree per i giovani, intrattenimento, prendendo esempio – dice Basilisco – da tante altre città europee per risolvere l’eterno scontro tra residenti e chi vuole divertirsi: potremmo sposare la movida in quell’area non residenziale, per non arrecare fastidio a chi vuole tranquillità, senza però abbassare il volume della musica».
Il partenariato sarà il mezzo per rigenerare magazzini e costa dal Porto Vecchio ma, terminati i lavori, a essere trasformata sarà tutta Trieste. Il modo di abitare la città dovrà essere messo in discussione. «Il progetto di Costim – continua – impone un ragionamento di lungimiranza: cosa farne del resto di Trieste quando avremo a disposizione altri sessantasei ettari in cui abitare». L’esempio in scala ridotta è quello di via Giulia. Quando, anni fa, si decise di spostare i principali uffici della Regione dal vecchio edificio in quella via verso altre destinazioni, il centro commerciale iniziò a battere molti meno scontrini, mentre aumentarono gli affari di negozi e ristoranti vicini alle sedi di via Carducci, via San Francesco, corso Cavour. «Tra dieci, vent’anni – annota Basilisco – quelle sedi saranno ormai già vendute, e più di mille dipendenti verranno spostati in Porto Vecchio». Ma non saranno i soli a traslocare. «Il baricentro di tutta la città si sposterà in quella zona».
Accanto ai nuovi uffici ristrutturati dalla Regione ci saranno altri 19 hangar in mano a privati. Residenze e nuovi appartamenti da riempire in una città che si sta spopolando, un parco lineare, palestre e un polo museale. Versioni più moderne di servizi finora offerti altrove. «Tutti – conclude – vorranno frequentare quello scalo che non si è potuto frequentare per decenni: triestini e turisti lo riempiranno in modo massiccio. Ragioniamo perché il resto di Trieste diventi vuoto». —
Raffaele Morvay (magistrato)
«Più trasparenza e si allarghi il dibattito»
«Trasparenza» e «coerenza» dovranno essere i due pilastri su cui edificare uno scalo che possa dirsi davvero “vivo”, perché abitato, partecipato da tutti. In particolare dai giovani, che possano animare quelle distese di binari e magazzini rimasti inabitati per decenni e in cui adesso si immaginano destinazioni diverse. Altri futuri.
«Non credo che vivrò abbastanza per vedere la fine dei cantieri», dice con serenità e ironia il magistrato Raffaele Morvay, già presidente del Tribunale di Trieste ora in pensione, consapevole che un progetto così importante richiederà molti anni prima di essere completato. «Ma vorrei però – aggiunge – che i miei figli e nipoti possano vedere davvero il Porto Vivo: un nome bello e suggestivo, ma per ora – dice – solo uno dei tanti annunci».
“Vivo” non perché abitato da uffici regionali che «alle 17 diventano vuoti», ma perché animato da attività economiche, imprese artigianali. Alberghi e non affitti brevi. Ristoranti sul mare. «Trieste non ne ha, ora dobbiamo andare fino a Duino: sarebbe bello – immagina Morvay – raggiungerli con mezzi ecologici e linee elettriche. Possibilmente non sospese in aria, ma che scivolino a livello del suolo».
«“Vivo” perché – aggiunge il magistrato – reso tale da persone che possano frequentare una zona della città enorme meravigliosa, ma disabitata da decenni, per tutta la mia vita sicuramente: un Porto Vivo senza uffici o mere attrazioni per turisti, ma punto di ritrovo con sale concerti, mostre, spazi di aggregazione giovanile».
Risolvere e non disfare, abbattere ma poi ricostruire trovando risposte alle necessità della città e di chi la abita. «Non come hanno fatto – aggiunge con ironia – con i parcheggi del Molo IV, inghiottiti dalle ruspe senza alternative in cui lasciare l’auto». Alternativa che, aggiunge peraltro, potrebbe essere il park Bovedo o addirittura l’interporto a Ronchi, «se solo ci fossero navette ben organizzate». «Avviare cantieri e abbattere – osserva – è facile, trovare soluzioni alle necessità dei cittadini lo è molto meno. Per questo servirebbe più ascolto».
Il dibatto è acceso, ma per adesso solo a livello politico. A metà agosto la delibera di project financing è stata inviata – con documentazione limitata dal Codice degli appalti – alle circoscrizioni competenti. Nelle prossime settimane toccherà ai consiglieri comunali. Il tempo del confronto pubblico non è ancora arrivato. «Mi aspetterei – riflette Morvay – che il progetto non sia discusso a porte chiuse: ma che nel dibattito possano entrare anche associazioni culturali, categorie, ordini professionali, partiti giovanili. Chi quello scalo dovrà viverlo davvero».
In questi anni – guardando alle tante opere connesse al Porto Vecchio – sono stati fatti annunci importanti e presentati progetti firmati da nomi internazionali: il bosco urbano di Femia, il Museo del Mare di Consuegra, la prima cabinovia di Fuksas. «Il progetto di Costim – annota l’ex presidente del Tribunale di Trieste – si presenta come il più importante, il più lungo e il più impegnativo: ma le carte – osserva – sono ancora tutte riservate e noi cittadini, più o meno informati, per adesso non abbiamo le idee ben chiare su come verrà costruito il bando di gara».
I «fallimenti» del passato devono essere un faro. «Per tanti anni – ricorda Morvay – a bloccare il rilancio del Porto Vecchio è stata una parte della politica, ormai tramontata. Adesso, ultimamente, sono fiducioso, ma la mancanza di chiarezza progettuale non è una buona premessa: partecipazione, trasparenza e coerenza devono essere i due pilastri su cui ideare qualsiasi progetto ed edificare tutto il nuovo scalo. Senza questi due elementi, continueremo a parlarne per decenni, e così faranno i miei figli e i miei nipoti dopo di me».—
Serena Cividin (imprenditrice ed esperta di turismo)
«Per essere grandi ci vuole testa e visione»
Bagnato da marine, circondato dal verde, presieduto da oltre trenta fabbricati, attraversato da binari e arterie stradali. Fermo e disabitato da decenni, folle che continui a esserlo e straordinario che i triestini continuino a sognare in un futuro diverso per quello scalo. «In Porto Vecchio c’è la grandezza della città: ma grandi non ci si diventa per caso, senza una visione o un progetto importante», l’imprenditrice Serena Cividin lo dice per esperienza più che per convinzione.
Esperta di turismo, premette di aver girato tanto per il mondo – è titolare di “Cividin Viaggi” – potendo ammirare esempi di rigenerazione urbana, scali riqualificati e l’impulso che hanno dato alla loro città, aprendo per le rispettive comunità opportunità prima impensabili. Liverpool. Amburgo. Città del Capo. «In tutti questi porti – osserva Cividin – non c’è stato un progetto che non abbia avuto dietro un progettista importante e una prospettiva trasversale: nel project financing proposto da Costim, però, questo nome non lo vedo. E se c’è, perché non lo condividono con tutta la città?».
Porto Vecchio è troppo importante per non attirare nomi ambiziosi, architetti visionari e imprenditori internazionali. In sessantasei ettari «ci entra una città nella città», progettabile da zero. «Abbiamo l’opportunità – dice Cividin – di poter realizzare una piccola città da zero, costruirla con le tecnologie più moderne, secondo le esigenze del 2024 ma pensando già a cosa vorremmo nel 2034 o 2044: una fortuna immensa, che non ha nessuno, e che noi non possiamo sprecare».
Porto Vecchio «non si potrà ridurre a una compravendita di magazzini: in questo progetto – osserva l’imprenditrice – occorrerà ragionare in ampia gittata». Realizzare opportunità di commercio, attirare industrie innovative e centri di ricerca all’avanguardia. Riservare una parte a uffici, centri congressi e università, al fianco di marine e locali, e connettere tutto con una mobilità sostenibile dentro e fuori lo scalo. Ricavare edifici per la residenzialità, che non siano (solamente) affitti brevi ma alloggi per studiosi o alberghi per chi la città vuole scoprirla davvero: lentamente.
Porto Vecchio può essere una boccata d’ossigeno per una città in cui si inizia a parlare di overturism, invasa da trolley mordi e fuggi e file fuori ai locali all’ora di pranzo. «Quando si parla di turismo – precisa Cividin – si parla di un’industria e non di una flotta di persone che vanno a spasso per la città: ma per fare questo occorrono richiami importanti, obiettivi medi e segmentati». Un esempio? «Ad esempio – ipotizza – vedrei bene musei collegati tra loro, serie cronologicamente importanti di mostre ed eventi, esposizioni che attraggano i visitatori nello scalo, invitandoli poi a restare in città per periodi più lunghi e di qualità: un’opportunità di turismo intelligente, organizzato e incanalato, che non sia subito passivamente dai cittadini, ma diventi motore di capitale».
Il nuovo Porto Vecchio dovrà abbracciare tutte queste caratteristiche, ma per farlo occorrerà una «grande testa pensante». «Abbiamo a disposizione un’area immensa, un po’ per storia e un po’ per caso, ma nel 2024 – precisa Cividin – non possiamo pensare che si diventi grandi per casualità e fortuna: diventano grandi solo quelli che hanno pianificazione, produzione attiva, obiettivi di lavoro e possibilità. Tutto questo lo vedo nel nostro futuro, ma non in questa proposta».
«Trent’anni fa – aggiunge poi – c’era una comunità che correva con entusiasmo verso quel grande progetto che era il Porto Vecchio. Adesso ci stiamo un po’ allontanando da quel modo di partecipare e “lasciamo che sia”: forse è perché, di tutti questi piani di grandezza annunciati, per ora ne sappiamo ben poco. Forse poi ci mostreranno davvero quei render, e dentro ci sarà tutto questo e di più». —
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