«Portarne a casa uno solo giustifica tutto l’impegno»
TRIESTE «Mi sono sentito utile per qualcuno, anche se questo qualcuno rimarrà per sempre sconosciuto». Guido Ferluga è un gigante dagli occhi chiari e di mestiere fa la guardia forestale. È l’unico volontario partito dal Friuli Venezia Giulia per andare a scavare nella fossa di Kirov. «Quando me l’hanno chiesto, non ci ho pensato un attimo: ’ndemo dei!, e ho cominciato a preparare le carte», sorride dopo la battuta in triestino.
Chi gliel’ha fatto fare?
Portarne a casa anche uno solo giustifica tutto il nostro impegno. Pensi che gli amici mi chiedevano se andavo in Russia per le donne…
Come è cominciata?
Do una mano al museo di Felonica. Un giorno mi chiamano: “C’è da fare un salto in Russia”. Era una cosa giusta e un’avventura in un paese dove non ero stato e dove ora sono stato quattro volte. Tutto autofinanziato, sia chiaro.
Cos’ha trovato a Kirov?
Tutto diverso da come me l’ero immaginato. Gente semplice, spazi enormi. Tanta ospitalità e collaborazione.
Senza i volontari non sarebbe tornato nessuno. Che ne pensa dell’immobilismo delle istituzioni?
Siamo partiti senza nessun aiuto ma volevamo dare una mano ai russi, che ce l’avevano chiesto. Nessuna polemica verso Onorcaduti, che ha gestito tutti gli aspetti burocratici. Ma per noi non è finita finché non è finita: bisognava provare per vedere cosa si sarebbe potuto fare per quei morti.
Quando parla di loro si emoziona…
Ognuno lì sotto ha una storia. Quello che abbiamo fatto è servito a chiudere un capitolo per una famiglia, che ha ritrovato il suo disperso.
Da chi erano composte le squadre italiane?
Gente normale, non certo superuomini o superdonne. L’architetto di Firenze, il forestale di Trieste, la studentessa di ingegneria aerospaziale, il dipendente del supermercato, il professore universitario. Nessun esaltato, solo appassionati di storia, persone impegnate con associazioni e musei. La memoria non va persa, perché senza arrivano i guai.
Siete diventati amici?
Come sotto il servizio militare. Ci siamo uniti per uno scopo e saremo legati per sempre. Ognuno ha fatto il suo: io so lavorare in bosco e gestire la logistica all’aperto. La motosega è toccata subito a me!
Com’era una giornata tipo a Kirov?
Solo alcuni di noi avevano esperienza di questo tipo e abbiamo quindi lavorato sotto la direzione dei russi. Un pulmino ci portava allo scavo di mattina presto, accendevamo il fuoco per fare il te e cominciavano. Lo sterramento avveniva a mano per non danneggiare i resti. Con i russi ci spiegavamo a gesti e grazie a un’interprete: c’è stata grande collaborazione fra persone di culture e lingue diverse.
Che emozioni dà il ritrovamento di una piastrina?
Grandi, qualunque sia la nazionalità del soldato. Ma anche raccoglimento, pensando alla morte di un povero cristo. E poi c’erano gli oggetti quotidiani: un pettine, le matite. Cose che per noi sono normali, ma che per quei soldati rappresentavano il modo di stare aggrappati alla normalità in quella tragedia. Più di tutto mi hanno colpito le matite e quella speranza di poter avere un contatto per dare notizie alle famiglie.
Sarà a Cargnacco il 2 marzo? Cosa crede che proverà durante la cerimonia?
Ci sarò certamente, assieme a tutta la squadra, sperando che ci siano tutti. Quando passeranno i resti, non vedrò le cassette che li contengono ma persone che finalmente tornano a casa. Sarà sicuramente una grande emozione.
Gli scavi a Kirov sono finiti? Avete nuove campagne in programma in Russia?
A Kirov, se non ci saranno grosse novità, credo di poter dire che la sepoltura sia stata scandagliata interamente. Ma si sta cercando ancora e vedremo cosa potrà succedere in futuro. In Russia ci sono comunque molte altre zone segnalate, ad esempio a nord di Kirov per quanto riguarda i prigionieri e sotto Rostow per quanto riguarda i caduti in combattimento. Tutto da studiare e preparare, ma in futuro non escludiamo nuove campagne di scavo. Quelle trascorse in Russia sono state ferie molto più appaganti di tante altre. —
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