Porta sempre aperta, cellulare acceso a ogni ora e confronti continui: così il direttore Monestier seguiva i suoi giornalisti

Ai colleghi non si stancava mai di ricordare che dietro a ogni articolo «ci sono persone»

TRIESTE La porta di Omar Monestier era sempre aperta, ma non in senso figurato. Lo era per davvero. Il suo numero di cellulare era patrimonio di tutti i colleghi della redazione. Che ci fosse da fare un rimprovero o un complimento, arrivava sempre dal direttore. Non delegava nemmeno quello. Che tu fossi un caporedattore o l’ultimo assunto, lui c’era, a suo modo si prendeva cura di te e della sua redazione.

Tutto era importante: la malattia di un collega, le ferie da smaltire, un computer rotto, lui voleva essere messo a parte di ogni problema. «Che vi piaccia o no, io sono uno di voi. Sono un giornalista della redazione, siamo sulla stessa barca», ripeteva durante gli incontri con il comitato di redazione. Un modo per dire che sì, lui doveva portare avanti il mandato dell’editore, ma era l’altra parte più che la controparte. E di tutto si occupava, talvolta anche dei boxini a fondo pagina. Leggeva pure quelli. Poi, di sera, per discutere di un pezzullo che non gli andava giù ti chiamava e ti rimproverava come fosse la cosa più importante del giornale.

il ricordo
Grazie Direttore
Lasorte Trieste 01/08/22 - Omar Monestier, Direttore

Non si sottraeva mai al confronto e non ti faceva mai pesare il suo ruolo, ma sapeva anche essere irremovibile. Di quel ruolo, di cui era fiero nonostante i tempi avversi al mestiere, si assumeva tutte le responsabilità e i rischi, non solo gli onori. La prima linea era l’unica che conosceva e che forse gli derivava dalla sua formazione giovanile di cronista. Ed era quella che voleva dai suoi giornalisti.

Pur sapendo essere diretto e ruvido se necessario, il bianco o il nero non erano la sua cifra. Da mediatore per scelta, sapeva che l’altra parte non va mai umiliata, che le ragioni vanno condivise e che ogni trattativa deve lasciare all’altro qualcosa di positivo.

Era un mediatore, sì. E a lui va riconosciuto anche il merito di aver accompagnato le redazioni del Messaggero Veneto e de Il Piccolo a superare le iniziali e comprensibili perplessità sulla direzione unica dei due quotidiani, punti di riferimento per territori che presentano storia, peculiarità e complessità certamente differenti. Come ricordano i colleghi, al suo arrivo a Trieste il direttore aveva chiesto suggerimenti sulle letture più appropriate per conoscere meglio la storia del confine orientale.

Lavoratore instancabile, spesso tendeva a un approccio quasi “paterno” con i suoi giornalisti. «Io andrò in pensione, ma voi restate e questo lavoro ve lo dovete tenere stretto». E il collega in difficoltà «va aiutato», insisteva. Ai giornalisti più giovani e con meno esperienza non si stancava di ricordare che dietro a ogni articolo «ci sono persone». E poi lo stile, l’eleganza, cuciti non solo sulla giacca e la cravatta che indossava sempre, ma nell’animo. Un animo buono.

Qualche giorno fa, prima dell’avvio del nuovo sito internet del Messaggero Veneto, l’ultima riunione con il Cdr per annunciare la partenza di un percorso che per lui era molto più che una transizione tecnologica. «Dopo la pausa di agosto presenterò il nuovo piano alla redazione – aveva annunciato –. Sapete che ci credo e dovete aiutarmi a far capire ai colleghi che bisogna vincere le resistenze verso questa trasformazione. I giornalisti continueranno a produrre contenuti di qualità, sulla carta e sul digitale. Dobbiamo essere protagonisti di questo cambiamento, non subirlo. Io ho tutta l’intenzione di andare in pensione facendo questo mestiere». Quei concetti li aveva anticipati ai capiservizio in una delle ultime riunioni. Oggi, più che un’anticipazione sul futuro, quelle parole sono diventate un lascito. Quanto mai doloroso.

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