Pordenonelegge, il festival dei record supera quota 120mila
PORDENONE. Un motore che la Ferrari se lo sogna. Una capacità di accelerazione che porterebbe a vincere il mondiale anche il povero Fernando Alonso. Insomma, la macchina di Pordenonelegge non smette di stupire. E il bilancio dell'edizione 2013 lo conferma in pieno. In cinque giorni il Festival, su cui è calato il sipario ieri sera, ha chiamato a raccolta ben più delle 120 mila persone dell'anno corso. I trecento e più eventi in cartellone sono stati presentati, rilanciati, commentati da centinaia di messaggi Twitter, da un mucchio di foto Instagram. Alla prima esperienza, il numero di amici della rassegna, che versando un contributo si assicurano il biglietto per gli incontri, è schizzato a oltre 800. Se non bastasse, ha stupito perfino gli organizzatori la folla che ha risposto al richiamo, sabato sera al Teatro Verdi, di Roberto Saviano e Stefano Piedimonte.
Anche l'ultima giornata di Pordenonelegge ha messo in programma una serie di incontri con i massimi scrittori contemporanei. A partire da John Banville, il narratore irlandese che tra un paio di settimane potrebbe portarsi a casa il Premio Nobel per la letteratura. Nato a Wexford, classe 1945, presente da pochi giorni nelle librerie italiane con il suo nuovo romanzo “Un'educazione sentimentale”, pubblicato da Guanda, cerca di evitare l'argomento per scaramanzia. «Un po' di tempo fa ero in Brasile con Beatrice von Rezzori, la moglie di Gregor. E tutti mi chiedevano come ci si sente a essere in corsa per il Nobel. A un certo punto lei è sbottata, dicendo che se continuavano a parlarne non l'avrei vinto mai più. Forse è meglio stare in silenzio».
Vincitore del Man Booker Prize, spesso Banville viene considerato una sorta di erede dei temi e dello stile di Vladimir Nabokov, ma anche di James Joyce. «Devo dire che mi hanno colpito molto i Dubliners di Joyce. Ho letto anche l’Ulisse, che considero un libro non compiuto. E a tutti dico: ma che lezione si può imparare da Joyce, visto che lui ha prodotto non uno, ma diversi stili? Al contrario, tante suggestioni mi sono arrivate da William Butler Yeats e da Henry James». E a proposito del suo romanzo “Un'educazione sentimentale”, dove il protagonista ritorna con il ricordo a una storia d'amore che lo ha legato da giovane a una donna più grande di lui, lo scrittore è convinto che «ognuno di noi non ricorda il passato, ma lo immagina. Lo riempie di episodi, odori, sensazioni. Lo stesso Sigmund Freud aveva dedicato uno studio alla memoria, per capire che cosa ci porta a rimuovere e recuperare le cose accadute in un tempo lontano».
Convinto che un romanzo dovrebbe avere la stessa forza di una poesia, pur con una forza muscolare dentro in più, Banville considera i cinque libri scritti con lo pseudonimo Benjamin Black come una sorta di vacanza da se stesso. «Quando invento quelle storie, mi sento un altro da me. E sono orgogliosissimo di questa mia seconda natura letteraria. Forse più leggera: la rispetto molto».
Daniel Pennac, che non ha mai abbandonato il suo quartiere di Belleville a Parigi, tra poco vedrà trasformarsi uno dei romanzi più fortunati che ha firmato, "Il paradiso degli orchi", in film. «Una sera, fuori dal teatro dove leggevo Melville, si è presentato un regista di 25 anni. Era così entusiasta del suo progetto che mi ha convinto a dirgli sì. E il film conserva in sé tutto quell'entusiasmo, la forza e il ritmo del libro». Il suo nuovo romanzo “Storia di un corpo”, scritto in forma di diario, l'ha portato a Pordenonelegge che nemmeno conosceva. «Ma non so nulla della maggior parte dei festival francesi e italiani. Però mi sono informato sul piatto tipico che si mangia qui. Mi hanno parlato del frico, fatto con le patate e il formaggio, e voglio proprio assaggiarlo».
Nato a Casablanca, costretto a cambiare il suo vero cognome Pennacchioni per non nuocere a suo padre militare di carriera, dopo aver scritto un pamphlet contro il servizio militare, Pennac racconta che il suo quartiere multietnico di Belleville attira molo gli italiani: «Non c'è niente da vedere, ma loro forse sperano di incontrare Benjamin Maulassène o qualcun altro dei miei personaggi». Al lavoro su un nuovo romanzo, intitolato per il momento “Gli uomini freddi” e dedicato alla tragedia del Vajont, Mauro Corona ha dettato ieri mattina i suoi consigli per vivere bene: «Rallentare i ritmi, rinunciare alle cose inutili, non farsi travolgere dall'invidia, dal desiderio di apparire. Ritornare ad apprezzare le cose che abbiamo, non inseguendo sempre l'ultimo modello di “ipon” o di Rolex». E al ministro Zanonato manda a dire che anche in montagna si possono creare posti di lavoro: «Con il legno dei nostri boschi potremmo fare tante cose. Ma a chi interessa veramente?». Da poco, Corona si è trovato un posto semplice semplice, lontano da tutto, dove ritirarsi in silenzio per ritrovare le voci della Natura. «Per riempire una tanica da 30 litri d'acqua, alla sorgente, ci vuole un'ora e mezza. E anche il panino più semplice, lassù, assomiglia a un piatto da re».
E del futuro dei giovani ha parlato Silvia Avallone. La scrittrice di “Acciaio”, che Daniel Pennac apprezza al punto da regalare quel romanzo a tutti gli amici («L'ha letto anche mia figlia e lo trova davvero bello»), ha voluto costruire i personaggi della sua nuova storia “Marina Bellezza”, pubblicata da Rizzoli, con un bel po' di speranza nel cuore. «Non si può consegnare ai ragazzi un mondo senza speranza, solo perché c’è la crisi. Per questo ho voluto dedicare il mio secondo libro alla sfida di credere che ce la possiamo fare. Altrimenti, ascoltando i bollettini di guerra dei telegiornali, leggendo le interviste che i giornali pubblicano con cadenza inesorabile, la strada davanti a noi porta solo alla depressione. È poi che facciamo? Abbiamo distrutto l'avvenire».
@alemezlo
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