Ponte Morandi, il sopravvissuto triestino: «Penso soltanto al mio recupero, non la do vinta a un ponte»

Federico Cerne, massofisioterapista della Pallacanestro Trieste: «Non ho ricordi di quegli attimi, forse è una forma di difesa» 
Federico Cerne
Federico Cerne

TRIESTE «Non penso a un anno fa, sono troppo concentrato sul mio recupero». Il triestino Federico Cerne è una delle poche persone sopravvissute alla tragedia del crollo del ponte Morandi di Genova: l’auto su cui viaggiava assieme alla compagna Rita Giancristofaro, dopo un volo di decine di metri, si era incastrata in una piccola conca sopra le macerie. Entrambi si sono sottoposti nei mesi a diversi interventi, ma oggi sono più forti che mai.

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Ce la sta mettendo tutta il massofisioterapista 35enne della Pallacanestro Trieste «per tornare meglio di prima». La ginnastica riabilitativa è il suo primo obiettivo, da cui non si discosta nemmeno un istante. Inchieste, processi, revoche di concessioni: aspetti che non lo interessano. «Io faccio il massaggiatore, agli altri professionisti il compito di far sì che non si ripeta più una tragedia del genere».

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Come sta andando la riabilitazione?

Non ho ancora finito, non posso correre, sto lavorando ancora tanto in palestra. Ci vorrà ancora un po’ per tornare meglio di prima, come dico io. Mi manca un ultimo intervento per togliere i chiodi dal femore, dopo i precedenti sei che ho fatto, a partire dal polso. In questa occasione forse poi si capirà quanto tempo ancora mi manca per concludere la riabilitazione.

Com’è cambiata la sua vita da quel giorno?

Invece di andare a lavorare subito, la mattina, faccio fisioterapia. Fino a poco tempo fa impiegavo dieci ore tra piscina, palestra e lettino: mi sono impegnato tanto, voglio recuperare.

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Da quando è tornato a seguire la Pallacanestro Trieste?

Dal 14 aprile, otto mesi esatti dopo incidente, quando la squadra giocava contro il Reggio Emilia. Ci tenevo a essere pronto per la partita, anche per questo ho fatto ore e ore di riabilitazione.

Come vivrà la giornata di oggi?

Non andrò a Genova, mi sembra corretto che lo spazio sia lasciato alla commemorazione delle 43 vittime. E poi devo fare fisioterapia e lavorare.



Pensa mai a quel 14 agosto?

No, come detto sono concentrato sul mio recupero. Perciò non seguo nemmeno l’inchiesta: tra la mia salute e l’inchiesta do la priorità alla prima.

È più tornato a Genova?

Sì, due volte. La prima per andare a pranzo con Giovanni, Marco, Stefano e Alberto, il poliziotto e i tre pompieri che mi avevano estratto dall’auto. Siamo sempre in contatto. La seconda volta avevo appuntamento con un medico legale.



Che effetto le faceva vedere ciò che restava del ponte?

L’ho visto solo in tv. Nessun effetto, sono concentrato sul recupero. Se fossi spocchioso direi che mi batterei i pugni sul petto: non la do vinta a un ponte.

In questi mesi ha avuto bisogno di sostegno psicologico da un professionista?

No, al momento no: sono testardo e ho fatto tutto da solo.

Di quel giorno ricorda l’autogrill, il caffè, una sigaretta e poi il risveglio in ospedale. Non è riemerso nulla dell’incidente?

Non ho nessun altro flash.

Le hanno spiegato perché?

Forse è una forma di difesa ma nessuno m’ha detto niente.

Ha mantenuto contatti con gli altri sopravvissuti?

Ricordo solo di una ragazza, Camilla, eravamo insieme in Rianimazione. Mi aveva offerto un biscotto, dicendomi sorridendo che così avrei alleviato i dolori. Ma non l’ho mai più sentita. —

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