Poche donne al governo, la scrittrice Maraini: «In Italia esiste l’abitudine a discriminare Serve un cambio culturale»
TRIESTE La sproporzione tra ministre e ministri nella neonata squadra di governo è un risultato «inconsapevole», non voluto e non premeditato. Ma, più probabilmente, legato a un sessismo che si manifesta nella vita di tutti i giorni e da cui la società italiana fatica a svincolarsi. È questa la lettura che Dacia Maraini preferisce dare della scarsa rappresentanza femminile con cui l’esecutivo guidato da Draghi ha iniziato il suo cammino. Tra le scrittrici contemporanee più tradotte al mondo, voce storica del femminismo italiano, la poetessa e drammaturga fiorentina classe 1936 che ha dedicato buona parte delle sue opere a storie di donne, vuole guardare al futuro con ottimismo. E, nonostante i segnali poco confortanti, credere ancora nel potere del cambiamento attraverso «le proteste dei più giovani, delle donne».
Solamente otto ministre su 23 totali. E nessuna espressa dal Partito democratico. A che cosa imputa un rapporto numerico così sfavorevole per le donne all’interno della nuova squadra di governo?
«Non voglio pensare che ci sia una volontà dietro questa scelta. Preferisco credere che si tratti di abitudine alla discriminazione quotidiana, inconsapevole e distratta. Non si sceglie, viene spontaneo, il che la dice lunga sulla cultura retrograda di molta parte della nostra classe dirigente».
La pandemia, con le sfide che porta con sé, sarebbe stata una buona occasione per dare un’accelerata al cambiamento. Perché, nonostante tutto, si fa ancora così fatica ad affidare alle donne ruoli di responsabilità?
«Perché siamo figli della Storia. E la Storia è stata nemica delle donne per secoli, anzi direi millenni. È stato detto, scritto e ripetuto che le donne sono incapaci, prive di responsabilità, buone solo a fare figli, col cervello piccolo, incapaci di un pensiero sofisticato, incapaci di giudicare e decidere. È già un miracolo che alcune donne siano considerate degne di attenzione. È la cultura che crea le differenze, non la natura. Consiglierei a qualcuno di rileggere Simone De Beauvoir».
Crede che le quote rosa possano essere una soluzione a questa disuguaglianza atavica?
«Non mi piacciono. Ma in certe occasioni sono una necessità. Quando si vede che, a parità di valore e di competenza, sono gli uomini che prendono i posti di decisione, dobbiamo ammettere che una qualche regola che crei giustizia ci vuole».
Qualcuno, all’interno del centrosinistra, ha affermato che parte della responsabilità di così pochi incarichi sia da attribuire alle donne stesse, incapaci di farsi sentire, di rivendicare i propri spazi. Lei cosa ne pensa?
«Non si può sempre dare la colpa alle donne. Mi viene da citare una grande poetessa messicana, Suor Juana Inez de la Cruz, che diceva: “Se le donne sono gentili le chiamate puttane, se invece si negano, le chiamate arroganti e nemiche degli uomini”. Sono parole di una donna del diciassettesimo secolo. È triste che suonino ancora valide».
A che punto è secondo lei il nostro paese nel cammino verso la parità di genere?
«L’Italia, se la paragoniamo agli altri Paesi europei, è indietro. Se la paragoniamo a tanti altri Paesi del mondo dove regnano governi autocratici, è all’avanguardia. Dipende dal punto dai vista».
E attraverso quali strategie si potrebbe tentare di ottenere risultati più edificanti?
«Bisognerebbe cominciare dalle scuole elementari, insegnando il rispetto della parità e dei diritti. Poi bisognerebbe smetterla di proporre le donne in televisione e nella pubblicità come esche per gli acquisti. Ma questo dipende dalla società di mercato e non è facile uscire dalla società di mercato, ci siamo dentro fino al collo. Ma l’esempio, la protesta dei più giovani, delle donne, può cambiare le cose. Io ci spero. Sarò troppo ottimista? Ma se non si crede di potere cambiare, non si cambierà mai. Quindi, un poco più di ottimismo e rimbocchiamoci le maniche!». —
Riproduzione riservata © Il Piccolo