Pietro Mennea, correre per acchiappare i sogni

Il campione olimpico ospite sabato del Festival di Gorizia
Di Alessandro Mezzena Lona
Bumbaca Gorizia 18.05.2012 èStoria 012 Mons Vincenzo Paglia - Fotografia di Pierluigi Bumbaca
Bumbaca Gorizia 18.05.2012 èStoria 012 Mons Vincenzo Paglia - Fotografia di Pierluigi Bumbaca

di Alessandro Mezzena Lona

Non si è mai atteggiato a profeta Pietro Mennea. Eppure, nessuno può discutere il suo valore di atleta. Capace di sottoporsi a sedute di allenamento massacranti. Titolare di un record del mondo sui 200 metri che ha resistito per quasi vent’anni. Finalista nelle gare di cinque Olimpiadi diverse. Sempre alla larga dai sulfurei santoni del doping che, ormai, si sono impadroniti anche dell’atletica.

Questa sua storia leggendaria la racconta, adesso, nel libro “La corsa non finisce mai”, scritto con Daniele Menarini e pubblicato da Limina. E la ripeterà al Festival èStoria di Gorizia, che ha per tema “Profeti”, dove sarà ospite sabato alle 15 nella Tenda Erodoto. La storia di un ragazzo che da Barletta è andato alla conquista del mondo. E che, chiusi i conti con lo sport, si è tolto la soddisfazione di conseguire quattro lauree. Affermandosi nel lavoro come avvocato e commercialista e pubblicando ben 23 libri

«Forse non sarei mai diventato un atleta se non fosse esistito Pallamolla - racconta Pietro Mennea -. Stracciava sempre tutti nelle gare di corsa, a Barletta, e per me rappresentava una sfida. Dalle prime gare con lui ho capito che le mie gambe erano veloci. Poi, un giorno l’ho battuto e lui, da allora, non è più riuscito a vincere con me. E poi, soffriva di un complesso».

Quale?

«Quello del cognome. Pallamolla non era credibile, faceva ridere. Richiamava le prese in giro. Dopo la categoria allievi, che abbiamo fatto assieme, ha lasciato lo sport. Adesso fa il commercialista in una città del Nord. Ha provato a rintracciarlo lo staff che ha girato un film sulla mia vita».

Un film?

«Più precisamente un documentario. Si intitola 19”72 come il record del mondo sui 200. So che la produzione ha provato a rintracciarlo per fargli un’intervista, però poi non ce l’hanno fatta».

C’erano altri cognomi strani?

«C’era un Andreotti che correva con me, ma ovviamente non era il Giulio della Democrazia cristiana. E poi un Pizzolato che non è l’Orlando due volte vincitore della Maratona di New York».

Come ha fatto a diventare Mennea?

«Ero un ragazzo con tanti sogni. Realizzarli sembrava difficilissimo in una città come Barletta, nel Sud dell’Italia. E allora devi inseguirli. Io mi sono messo a correre per provare ad acchiapparli».

E a forza di correre, quei sogni li ha realizzati...

«Ho avuto una carriera agonistica davvero lunga e ricca di soddisfazioni. Cinque Olimpiadi, arrivando per quattro volte in finale. E poi, il record del mondo, i Giochi del Mediterraneo, i Campionati europei...».

Dopo i Giochi di Mosca decise di smettere.

«Provavo una stanchezza infinita. Ho avuto un vero e proprio black out mentale, proprio come è capitato recentemente a Pep Guardiola, l’osannato allenatore del Barcellona. Facevo l’agonista da più di dieci anni. Pensate cosa vuol dire bere sempre acqua minerale liscia e desiderare, mese dopo mese, una bottiglietta di bibita gasata. Che ti viene negata».

Ha dovuto lasciare casa presto.

«Sono rimasto a Barletta fino a quando andavo alle scuole superiori. Poi la mia vita è dipesa interamente da me. Ed ero ancora un ragazzo. Però ci ho creduto, ho lottato».

Dove ha trovato la forza di fare un record mondiale?

«Ancora adesso penso che quella di Città del Messico non è stata la gara della mia vita. Mi ha portato a conseguire il record del mondo. Ma lo stesso professor Vittori era convinto che, programmando la sfida al record dopo le Olimpiadi di Mosca, sarei arrivato a 19”5. Un’impresa clamorosa se pensiamo che si parla di trent’anni fa. Usain Bolt ha fatto 19”30, ma nel 2008».

E non segue le massacranti tabelle di allenamento che segnavano le sue giornate.

«Io e Vittori abbiamo dimostrato che con il lavoro serio si può vincere. Cinque, sei ore al giorno per la bellezza di quasi vent’anni. Ancora oggi se metto in rete una seduta dei miei allenamenti si spaventano. Dicono che sono quello che si è preparato con più costanza e serietà in tutti i tempi».

Non aveva paura di infortunarsi?

«In vent’anni non mi sono mai strappato i muscoli. Avevo dolori, infiammazioni, niente di più. Credo che nella velocità sono un caso unico. Significa che ho lavorato bene. Tenendomi alla larga dal doping, visto che chi usa steroidi e altre diavolerie si strappa in continuazione. Ho iniziato che pesavo 68 chili, ho smesso che ne pesavo 69».

Perché la sua esperienza non è stata valorizzata dalla Federazione?

«Perchè il sistema Italia è fatto così. Forse chi si prepara seriamente, che affronta le gare ma anche il lavoro quotidiano con impegno e sacrificio, fa paura. Però il risultato qual è: che da trent’anni il nostro Paese non va più in finale nelle gare di velocità ai Giochi olimpici».

Si può immaginare ancora uno sport pulito?

«Certo, puntando sui valori, sulla serietà. Se io avessi puntato solo ai soldi, ai miei interessi, non sarei durato tanto».

©RIPRODUZIONE RISERVATA

Argomenti:festivalstoria

Riproduzione riservata © Il Piccolo