«Però io non volevo vedere» cronaca vera di una tragedia
Il 21 dicembre 1996, un gelida giornata di bora, Graziano Scialpi, giornalista professionista, da tempo schiavo della droga, raggiunge l’appartamento di viale Miramare dove vive sua moglie Fernanda Flamigni - dopo averlo lasciato - con il figlio di pochi anni. Scialpi è andato lì per vedere il bambino, d’accordo con la moglie e, quando si presenta, in casa ci sono anche due sorelle di Fernanda, il fidanzato di una di loro e un’amica. Scialpi è armato di pistola. Non è la prima volta che il giornalista minaccia la moglie con un’arma. Mentre cerca di calmarlo, Fernanda riesce a dire all’amica, senza che il marito se ne accorga, di avvisare subito i carabinieri. Non appena i militari entrano nell’appartamento Scialpi spara, sotto gli occhi del figlioletto, colpendo la moglie e la cognata, Giovanna. Fernanda Flamigni, colpita alla testa, rimarrà cieca per sempre, sua sorella Giovanna muore sul colpo. Scialpi verrà condannato a 30 anni (poi scesi a 24 per indulto e buona condotta), ed è morto nell’ottobre del 2010 nel carcere Due Palazzi di Padova, all’età di 48 anni, dopo una lunga malattia. Aveva appena ricevuto la notizia delle sospensione della pena per motivi di salute.
In occasione della Giornata mondiale contro la violenza sulle donne - il 25 novembre -, esce ora un libro scritto a quattro mani da Fernanda Flamigni e Tiziano Storai, nel quale Fernanda rievoca la sua drammatica vicenda, uno dei casi più atroci di femminicidio mai accaduti a Trieste. Il libro, dal titolo emblematico “Non volevo vedere” (Edizioni Ediesse, pagg. 124, Euro 10,00), ha la prefazione del segretario generale della Cgil Susanna Camusso, una presentazione dell’attrice e scrittrice Lella Costa, ed è un coraggioso racconto autobiografico che ricostruisce momento per momento la genesi della catastrofe. Niente nomi, nel testo, tranne quelli delle vittime, ma la testimonianza, lucida e sofferta, fa del libro, come nota Lella Costa, «un prezioso contributo a quel cambiamento di mentalità, di atteggiamento, di assunzione di responsabilità nei confronti della violenza subita dalle donne che nessuna legge (comunque indispensabile, sia chiaro), da sola riuscirebbe mai a realizzare».
Fernanda Flamigni, che si firma con lo pseudonimo di Avalon, inizia il racconto del suo “amore sbagliato” dai tempi dell’università, quando, durante un’occupazione studentesca, conosce Graziano Scialpi: «Profilo scolpito - scrive l’autrice -, incorniciato dai raggi di sole, voce limpida e sicura, un bel portamento. Non potei fare a meno di pensare: “Che tipo...sarebbe bello conoscerlo”». Si conoscono, e scocca la scintilla dell’amore. Si frequentano, si vogliono bene. Lui è gentile, premuroso, lei è «terribilmente innamorata». Tanto da non fare caso al trillo del primo, flebile campanello d’allarme: «E intanto lui rollava spinelli e fumava...quella per l’hashish e la marijuana era veramente una passione. Incassai la cosa con un sottile senso di disagio premonitore». Nemmeno i repentini scatti d’ira, come quando sta per scatenare una rissa in discoteca, la mettono sulla difensiva: «Non fu difficile costruirmi una “mia” spiegazione: si era trattato di episodi isolati, eccessi dovuti alla stanchezza o allo stress, cose che capitano agli umani insomma».
Il rapporto continua, cresce. Fernanda viene assunta in una casa di spedizioni, Scialpi entra nella redazione di un nuovo quotidiano cittadino, dove si occupa di cronaca nera e giudiziaria. Lei frequenta la mansarda dove lui vive, ed è così felice che non dà rilievo ad altri segnali inquietanti: «Una sera, mentre rassettavo il salotto in attesa del suo ritorno, trovai un cucchiaino annerito dal fumo in un cassetto della scrivania. Un brivido gelato mi risalì la schiena. C’era una spiegazione diversa da quella ovvia, ne sono certa».
Invece la realtà diventerà palese dopo il matrimonio, e sarà sempre più oscura. L’eroina, il lavoro precario, le spese folli per la droga, gli scatti d’ira sempre più frequenti portano a un crescendo di sofferenze che nemmeno la nascita del figlio riuscirà a fermare. Anzi, i problemi aumentano. Iniziano le violenze, le minacce, e il sogno si trasforma in incubo: «Una sera in cui la pioggia batteva con insistenza sui vetri dell’abbaino e il tuono rimbombava cupo nel cielo livido, aprii gli occhi per guardarlo in viso mentre mi montava senza alcuna tenerezza. Colsi un riflesso bianco di denti, denti da squalo e di sclere iniettate di sangue: il tremolio delle guance cascanti e il risucchio umido della bocca semiaperta. No, quello non era mio marito».
Il resto è una deriva vista già tante volte. Lei lo lascia portando con sè il figlio, lui si apposta, la minaccia, chiede scusa, poi torna a minacciare, tira fuori la pistola. Le denunce non servono, le famiglie sono come imbozzolate nell’incredulità. È questo che, sin dal titolo, il libro di Fernanda Flamigni e Tiziano Storai mette in evidenza: il non vedere, il non capire, il continuare a coltivare un’illusione che non è solo della vittima, ma di tutti: le istituzioni, le forze dell’ordine, i colleghi, i conoscenti. È qui, nel territorio incerto e sfuggente dell’incredulità, del “non può essere”, del “non possiamo fare niente”, che cresce il seme della violenza sulle donne. «L’ha fatto. L’ha fatto davvero. Ha sparato. Se n’è fregato di suo figlio ed ha sparato!», pensa Fernanda nel letto d’ospedale subito dopo la tragedia, circondata da un’oscurità che non l’abbandonerà più. «Perdonerò il mio amore assassino, tuo e mio carnefice? Potendo, tu perdoneresti?» chiede ancora l’autrice alla sorella che non c’è più nella lettera struggente che chiude il libro. E la domanda resta sospesa, come un monito, l’ennesimo, rivolto a tutti.
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