Passerella per l’inferno con le baby modelle che vengono dal freddo
Fuori, un paesaggio spelacchiato, una nave mercantile in porto, strade sterrate e qualche carcassa d’auto. Dentro, in quella che potrebbe essere una palestra, ragazzine in bikini da quattro soldi si mettono in posa davanti alla macchina fotografica, ciascuna con un pezzo di carta in mano, su cui c’è scritto il nome, spesso impronunciabile, e misure da prepubertà. La macchina da presa si trattiene sugli esterni, una landa congelata dal freddo e dalla miseria, facendoci capire che lì, in Siberia, è importante avere un sogno. E loro, al massimo quindicenni, replicanti l’una dell’altra con la pelle diafana e i capelli lunghissimi, un sogno ce l’hanno davvero: diventare “girl model” e lasciarsi alle spalle la Russia per tentare la fortuna nel mondo dell’immagine.
Comincia così il docu-film girato nel 2011 da David Redmon e Ashley Sabin, che esce per Feltrinelli Real Cinema accompagnato dal libretto “Apparenze” a cura di Anna Maria Pasetti, un collage di interviste agli stessi autori - coppia di documentaristi americani vincitori di molti premi - a poi a esperti nel campo della moda, a psicologi e sociologi (dvd e volume euro 16,90). Un film agghiacciante che segue passo passo il viaggio della speranza di Nadya Vall, tredici anni, scelta in un casting ai confini del mondo per rappresentare il noto brand americano di abbigliamento giovanile “Switch” sul mercato giapponese, dove “giovane è bello”, e più sei acerba e ingenua più fai vendere.
A far da contrappunto alla storia di Nadya c’è quella, parallela, dell’ex modella americana Ashley Arbaugh, diventata “reclutatrice” in Russia di nuovi volti da spedire nel paese del Sol Levante. È stata proprio lei a contattare i due filmaker perchè girassero lo squallore e lo sfruttamento infantile che si celano dietro la promessa delle passerelle, ma nel film la sua volontà di denuncia è sfuggente e la sua figura rimane avvolta nell’ambiguità, finendo per assumere i contorni della vittima diventata il più implacabile carnefice delle bambine che sceglie. Non le protegge, non le incoraggia, si limita a guardarle come un entomologo e a osservare in loro la sua stessa sofferenza. La moda è un “mondo inconsistente, perfino noioso”, dice Ashley, ma poi ammette che è anche una droga da cui non ci si libera. A costo di diventare parte del marchingegno di tortura.
C’è un momento, nel documentario, in cui David Redmon appoggia idealmente a terra la telecamera e si sveste dei panni del testimone per aiutare la piccola modella. È quando Nadya si trova, sola, nell’immenso aeroporto di Tokyo, senza saper pronunciare una parola se non in russo. Porge il dizionario, smarrita, alla hostess, cercando invano il modo di acquistare un biglietto dell’autobus, mentre le luci abbaglianti si riflettono nei suoi occhi sgranati.
Scorrono in sequenza i fotogrammi di quello che ha lasciato in Siberia. Una mamma orgogliosa fino alle lacrime della coroncina simil-swarovski di Miss Elite Star, che ha assicurato alla sua piccola un contratto di lavoro temporaneo in Giappone, un padre che spera, coi guadagni promessi, di ristrutturare la casa, un’intera comunità che sogna il riscatto sociale. «Credo che non si debba crescere troppo in fretta», confessava Nadya alla telecamera appena pochi giorni prima della partenza, mentre raccoglieva ribes nell’orto con la nonna.
E invece. Casting defatiganti da un capo all’altra della megalopoli nipponica, poco da mangiare e un appartamento grande come una stia per polli, da dividere con la compagna Madlen, che però è benestante e ha una carta di credito e un telefono per chiamare casa. Le due, morte di fame, sgranocchiano dolcetti vicino ai letti a castello, non sapendo che nei loro contratti c’è scritto che la Switch può cambiare le clausole a suo piacimento e che nessun lavoro è garantito. A Madlen basteranno due centimetri di troppo sul giro vita per essere rispedita a casa con un debito di oltre duemila dollari.
Ashley è la proiezione di quanto accadrà alle modelle-bambine, almeno a quelle che riusciranno a non essere stritolate. Nella sua enorme e vuota casa design, acquistata ad appena ventitrè anni, senza una traccia di calore, impermeabile a qualsiasi intimità familiare, raggelante come la landa siberiana da cui Nadya è partita, la “reclutatrice” vive con due bambolotti di plastica, un maschio e una femmina, nudi e abbandonati sul divano di pelle: «Li ho comprati quando ho preso casa, perchè una casa non è tale senza figli e questi sono i miei figli». Poi l’immagine si sposta e Ashley viene ripresa di profilo, mentre guarda allo specchio la sua pancia arrotondata. Non è una nuova vita che comincia: in un letto d’ospedale la giovane donna mostra crudamente la cisti e il fibroma che le hanno tolto e, alternando poche frasi smozzicate a silenzi eloquenti, parla del sogno di una futura maternità.
Nessun giudizio, se non per implicazione. Nel film si sentono solo le voci dei protagonisti. «A scopo educativo - dice Tigran, l’agente di Nadya e tra i più potenti model booker del Paese - qualche volta le portiamo in visita all’obitorio di San Pietroburgo. Facciamo vedere loro le ragazze e i ragazzi morti per droga. È una cosa che non dimenticheranno mai. E se non è sufficiente le facciamo assistere a un’autopsia. Credimi, ha un effetto devastante. Perchè pensano che potrebbe capitare a loro».
Nadya ha deciso di continuare a fare la girl model, nonostante anche lei sia tornata indietro dal Giappone solo con un mucchio di debiti. «Abbiamo saputo - dicono Redmon e Sabin e in un’intervista riportata nel libro - che è andata in Cina per alcuni lavori. Onestamente siamo rimasti sconvolti nell’apprendere che tanta sofferenza non sia bastata a farle cambiare idea, ma comprendiamo anche che in quella fascia d’età e con un background famigliare e culturale come il suo, tutto può sembrare migliore che non restare a a casa. Il vero problema è che queste teenager si espongono a un “mercato umano” fortemente sessualizzato, con tutti i rischi implicati al caso».
Sul blog del film http://girlmodelthemovie.com/ si raccolgono i nomi delle giovanissime morte per autodistruzione, di cui solo le famiglie custodiscono ormai le storie. Non sono top model, nessuno se le ricorda. «Chi difende l’industria della moda - si legge - ammette che esistono diversi problemi al suo interno, ma li espone come problemi di un’industria qualunque. Dimenticandosi così che in quest’industria si investe sulla vita di giovanissime donne. La maggioranza viene sbattuta in uno stile di vita “adulto” prima di raggiungere l’effettiva età adulta. La moda reagisce definendosi un’arte. Ma - posto che arte sia - è giusto che siano le vite di queste ragazze a pagarne il prezzo?». Segue un elenco di trentun nomi, dai sedici ai trentasei anni: donne morte per anoressia, overdose, la maggior parte per suicidio.
@boria_a
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Riproduzione riservata © Il Piccolo