Parla il fratello del killer 25enne: «Aiutatemi a raggiungere Trieste e recuperare il corpo di mio padre»

L’appello di Zinhom Wahdan, figlio di Ashraf, ucciso a coltellate dal primogenito Sherif in via Stuparich a Trieste
Laura Tonero
Lasorte Trieste 17/09/21 - Via Stuparich, Omicidio
Lasorte Trieste 17/09/21 - Via Stuparich, Omicidio

TRIESTE «Aiutatemi a venire in Italia e a raggiungere Trieste: l’ambasciata e il consolato italiano in Egitto me lo stanno impedendo, e io devo recuperare il corpo di mio padre e stare vicino a mio fratello». L’appello disperato arriva dal 23enne Zinhom Wahdan, figlio di Ashraf Wahdan, il 55enne ucciso a coltellate per mano dell’altro figlio, il 25enne Sherif, lo scorso 17 settembre nella sua casa di via Stuparich. Un fatto di cronaca che ha sconvolto sì la città, ma soprattutto la famiglia Wahdan: la moglie, la figlia di 15 anni e il figlio Zinhom sono in Egitto, e da quella tragica giornata non hanno potuto vedere ancora la salma dell’uomo, né tantomeno far visita a Sherif, rinchiuso in isolamento nel carcere del Coroneo.

Zinhom, dalla sua casa nel governatorato di Manufiyya, a nord de Il Cairo, non si dà pace, e riferisce di venir ostacolato sia dall’ambasciata che dal consolato nell’ottenere un visto temporaneo per arrivare in Italia. Il giovane egiziano, definendo l’atteggiamento dell’ambasciata e del consolato italiano in Egitto «razzisti» nei suoi confronti, riferisce come «la responsabile dei visti non ha voluto nemmeno ascoltarmi – racconta – e il traduttore parlava a malapena l’italiano. Non mi è stata data la possibilità di esprimermi, di spiegare, a riprova di ciò il fatto che mi hanno invitato a farmi inviare i documenti da mio padre: parole che ho trovato offensive e che dimostrano la mancata volontà dell’ambasciata di darmi supporto».

Il giovane vuole in primis venire a sbrigare le pratiche per trasferire la salma del padre in Egitto. Sul corpo di Ashraf Wahdan è stata disposta l’autopsia, il cui esito sarà disponibile a breve. «Il corpo di mio padre è conservato in una cella frigorifera da 35 giorni – dichiara il figlio con la voce affranta –, non ho potuto ancora vederlo, salutarlo, fargli una carezza e non so più come o a chi chiedere aiuto per poterlo riportare a casa. Sto mandando e-mail ovunque, ma nessuno mi risponde».

Il pm Federica Riolino ha rilasciato ora il nullaosta per la sepoltura del corpo del 55enne, quindi la famiglia può disporne il trasferimento in Egitto. «Devo venire in Italia anche per recuperare i documenti di mio padre, per riavere le cose che mi spettano di diritto», sottolinea il giovane, che attualmente si sta prendendo cura della sorella minore, visto che la madre, dopo l’omicidio del marito e l’arresto del figlio maggiore, non si è ripresa dal dolore e resta ricoverata.

Riguardo al fratello Sherif, il giovane conferma che «aveva dei problemi psicologici. Mio padre l’aveva portato in Italia per tentare di aiutarlo», spiega. Zinhom riferisce di aver ora ottenuto dal ministero degli Esteri egiziano una “humanity letter”, un documento che racconta quanto accaduto alla famiglia Wahdan, le esigenze del giovane, al fine di stimolare l’ambasciata italiana a rilasciare un visto che gli consenta di raggiungere l’Italia e Trieste. «Ho avuto una risposta dopo 16 giorni, e ora, ogni giorno, non fanno altro che chiedermi di produrre ulteriori documenti, per farmi perdere tempo», sostiene. Il ragazzo, che parla un po’ l’inglese e a fatica l’italiano, lancia così una disperata richiesta di aiuto: «Lì c’è un pezzo della mia vita, c’è il corpo di mio padre, un fratello che non posso abbandonare: aiutatemi a raggiungere Trieste».

Il difensore di Sherif Wahdan, l’avvocato Massimo Scrascia, riferisce che al suo assistito «farebbe piacere ricevere la visita di un familiare». E sul suo stato di salute dichiara si trovi «nello stato delirante di quando è stato arrestato: oggi, come allora, sostiene di essere Dio».

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