Papà e bimbo divisi a causa del confine

TRIESTE Padre e figlio separati da un confine nazionale. Succede a Trieste, ai tempi del coronavirus. Ma la questione potrebbe riguardare tante altre situazioni simili, in Friuli Venezia Giulia come in altre regioni italiane.
Ecco i fatti. La premessa è che Paolo (il nome è stato cambiato, dato che la vicenda coinvolge un minore) è un papà separato. Per ammortizzare le spese da un paio d’anni vive a Sesana, in Slovenia, con un permesso di soggiorno temporaneo, continuando nel frattempo a lavorare e a pagare le tasse in Italia. Con la separazione consensuale il Tribunale di Trieste ha stabilito che il figlio di Paolo debba stare con il papà dal venerdì pomeriggio, dopo la scuola, fino al lunedì mattina. È un bambino di 11 anni, che qui chiameremo Alessio. «Essendo io e la mia ex moglie in ottimi rapporti – spiega Paolo – abitualmente gestiamo la situazione in modo “smart”, in funzione della volontà di Alessio e delle nostre rispettive esigenze lavorative».
Fin qui tutto regolare. La situazione ha iniziato a ingarbugliarsi quando l’emergenza coronavirus è arrivata in Europa: «Inizialmente sono subentrati alcuni ostacoli burocratici – prosegue Paolo – come le autocertificazioni per poter girare in Italia, la misurazione della febbre al confine tra Italia e Slovenia, i permessi turistici per far stare il bambino da me e così via. Nonostante ciò riuscivo, nel rispetto della legalità e delle norme, a stare con Alessio nelle giornate indicate dal tribunale». Il vero punto di svolta è arrivato in un secondo momento. A segnarlo è stata l’Ordinanza del nostro ministero della Salute del 28 marzo, “Ulteriori misure urgenti di contenimento e gestione dell'emergenza epidemiologica da Covid-19”. Nel testo si legge che chi entra in Italia, anche se asintomatico, deve non solo denunciare il proprio ingresso nel territorio nazionale ma anche sottoporsi «alla sorveglianza sanitaria e all'isolamento fiduciario per un periodo di 14 giorni».
«Mentre veniva annunciato il nuovo provvedimento il bambino era da me – riprende Paolo –. Erano le 21.30 di sabato sera. Ci siamo subito precipitati al confine di Fernetti, dove intanto avevo dato appuntamento alla mia ex. Lì ho restituito Alessio alla mamma, prima che la misura diventasse operativa: quella notte ci siamo sentiti come tre profughi, in fuga. E adesso non so quando rivedrò mio figlio. Se infatti venisse da me, cosa che sulla carta può fare, al ritorno in Italia dovrebbe stare in quarantena per due settimane». La situazione solleva una miriade di questioni: «Sarebbe uno stress incredibile per un ragazzino della sua età, in una situazione già difficile. Essendo molto maturo, prima non aveva mai battuto ciglio, durante l’emergenza. Adesso invece è rimasto tanto male. Se poi mio figlio dovesse andare in quarantena per il solo fatto di essere stato da me, dovrebbe farlo di conseguenza anche sua madre, la mia ex moglie? Se sì, chi farebbe la spesa per loro due? Facendo tutte queste valutazioni, ora come ora non mi sento di prendermi la responsabilità di esporre a un simile rischio le persone a me care».
Conclude il genitore: «Auspico che la Regione autonoma possa intervenire a chiarire la questione. Una cosa sono i sacrifici, che tutti stiamo facendo di buon animo, un’altra cosa sono i buchi normativi. Se anche dovessi andare a farmi mettere un timbro in Prefettura a ogni spostamento, ci andrei di corsa. Preleverei Alessio sotto l'abitazione della mamma e lo porterei a casa mia, senza entrare in contatto con nessuno, come abbiamo sempre fatto. Credo che passare del tempo con mio figlio sia non solo un mio dovere, ma anche un mio diritto genitoriale: non poterlo fare è la cosa che più mi butta giù in questo momento». —
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