Paniccia: «Basta soldi a fondo perduto»
Soldi, aiuti, finanziamenti, crisi. È la svolta. La Fondazione CrTrieste «non è più un bancomat». Chi chiede soldi dovrà portare un progetto che migliori la propria attività. Chi vuol solo colmare buchi di bilancio sarà respinto. Anche associazioni: «Se fanno volontariato, non diventino “postifici” chiedendo soldi». Infine anche la Fondazione farà una “spending review” interna. Concreto, esplicito, per la sua parte anche indignato, il presidente di Acegas-Aps e della Fondazione CrTrieste Massimo Paniccia (appena riconfermato) decide di dire più del solito. Senza polemiche, ma anche senza sconti per nessuno.
Presidente, partendo dal destino del vostro costoso Magazzini vino tuttora in lavoro si arriva facilmente ad altri ruderi. Porto vecchio in stallo, comprensibile o censurabile?
Sul Magazzino vini abbiamo sentito tanti portare non idee, ma frasi come: “Bisognerebbe fare così e così”. Dimenticando che esiste una proprietà. Su Porto vecchio altrettanto esistono dei diritti. Poi c’è l’interesse collettivo per attivare l’economia della città. Io penso che occorre un percorso di logica: chi ne ha le responsabilità lavori per la soluzione migliore, assieme agli attori pubblici. I soggetti sono Autorità portuale e concessionari. Gli attori che hanno a cuore la città sono il Comune, la Provincia, la Camera di commercio e quant’altri. Autorità portuale e concessionari dovrebbero chiamare tutti a un tavolo per accordarsi su ipotesi e “desiderata”. Ciò in cui meno credo sono le continue sparate di sassi nello stagno, con l’attesa che accada qualcosa, o magari anche niente.
Lei sa che è il Punto franco il macigno di scontro.
Io non so francamente che cosa significhi il Punto franco. So invece che adesso servono piuttosto punti fermi: i diritti, gli interlocutori. E chi ha le responsabilità si metta insieme per ragionarci. Serve un metodo, che manca. Io sono convinto che aprire Porto vecchio per dare sviluppo alla città sia assolutamente importante e da perseguire. Ma da un lato ci sono in Italia regole burocratiche che mettono il mal di pancia, e spesso alla fine impediscono di realizzare quello che si voleva inizialmente fare, perché questo non si può, quell’altro neppure, e quel terzo qualcuno non lo vuole. Ma dall’altro lato qualcuno deve pur dire prima o poi un “sì” o un “no”.
Impedimenti. Quali esattamente?
Siamo ancora oggi in contatto con la Soprintendenza per il Magazzino vini. Ma quante volte, appena deciso qualcosa, ci siamo trovati di fronte al “no”. Per non citare il fatto che non appena avevamo fatto il progetto per un concordato palacongressi una bella mattina ci arrivò una lettera del Comune: «No, non ci va più bene». Finisce tra una cosa e l’altra che mi trovo coinvolto in una scelta che non è più la mia.
Lei lavora coi soldi. La crisi economica come si evolve?
La fine io non riesco a vederla. Finirà fra 3, 4, 5 anni? No, credo che dovremo d’ora in poi convivere con un mondo cambiato. Dopo il pareggio di bilancio l’Italia dovrà restituire 50 miliardi all’anno di debito per 20 anni. Ci dovremo pur chiedere come mai l’Italia ha un bilancio da 450 miliardi con un deficit da azzerare, e la Germania un pareggio a 315 miliardi con servizi sociali migliori, e la Francia (con un po’ di deficit) di 270 miliardi? Questa non è una di quelle crisi veloci come accadde nel 1974, nel 1980. La Merkel dice che ne usciremo fra 5 anni, io penso invece che in 5 anni dovremo appena riscrivere le regole di un paese moderno che torni a essere fondato su democrazia e interesse collettivo prevalente. Altrimenti ho i miei dubbi che l’Italia rimanga una grande potenza. Da imprenditore, comunque, sono obbligato a restare ottimista. Altrimenti si getterebbe la spugna.
Le conseguenze coinvolgono anche la Fondazione?
Certo, partiamo da noi: si può far meglio? Certo. Saremo meno dispendiosi d’ora in poi. Fatta la “spending review”, la racconteremo. Ma a chi viene a chiederci soldi io dovrò dire: non possiamo più ragionare in termini di ripresa, ma solo di cambiamento. Facciano dunque meglio anche gli altri. Vogliono un sostegno per migliorare? Avranno un tavolo per ragionarci. Ci vedono come un bancomat e basta? Non mi va bene. Tutti devono chiedersi non solo “che cosa può fare la Fondazione per me”, ma anche (kennedyanamente) “che cosa posso fare io per la Fondazione”.
Avete portato da 7 a 6 i milioni di erogazione di fondi, e specificato che avranno preminenza i progetti vostri. Che cosa significa?
Continuità, ma con priorità. Per noi la priorità restano i bisogni primari, impellenti, di povertà, dare a quelli che non hanno: mangiare, assistenza, casa. La Caritas, il Teresiano e così via. Poi la cultura, che è qualità di vita e sviluppo. Però facendo delle scelte. Adesso qui non si può incrementare, e nemmeno sostenere tutto.
E i nuovi criteri di scelta quali saranno?
Che nell’iniziativa ci sia un progetto per il futuro. Diamo la canna da pesca, non il pesce per il giorno. I teatri, per esempio. Va bene il progetto, non la semplice richiesta “aiutatemi”. Se i soldi servono per migliorare, diamo. Se vengono chiesti per coprire buchi di bilancio che altri non sono stati capaci di evitare, non diamo.
Altri capitoli in revisione o solo la cultura?
No, anche l’Agenzia per l’affitto, e le varie associazioni. Dell’Agenzia abbiamo sostenuto completamente un intero ciclo. Adesso abbiamo avviato un’indagine: diteci quanto funziona, e se. Erogazioni a fondo perduto non se ne danno più. Altrettanto per le associazioni: l’aiuto lo diamo a chi vive “in” disabilità, non “di” disabilità. Il volontariato sia volontariato, e non un “postificio”. Abbiamo pertanto chiesto di vedere i bilanci prima di decidere. Vogliamo stimolare anche gli altri a far di più avendo di meno.
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