Padoa-Schioppa, addio al grande economista "servitore dello Stato"
Commozione e rispetto internazionale per la morte improvvisa di Tommaso Padoa-Schioppa. Grande economista, ex ministro del governo Prodi ed europeista convinto, aveva forti legami con Trieste. Celebri la sferzata ai ”bamboccioni” e l’elogio delle tasse. Napolitano: "Un servitore dello Stato"

TRIESTE
«Dobbiamo essere preparati a tempi lunghi e a un cammino difficile», ha detto Tommaso Padoa-Schioppa in una recente intervista a questo giornale. La sua scomparsa improvvisa sottrae all’Italia un lucido testimone dei nostri tempi infaticabile anche nel ricercare e analizzare l’ultima crisi globale destinata a durare ancora anni. Le sue affinità elettive con Trieste erano profonde: «Io ho fatto per cinque anni il ginnasio e il liceo a Trieste, Dante e Petrarca, che negli anni Cinquanta era una delle pochissime città italiane dove non si esitava a parlare di valori nazionali, due parole poi scomparse per decenni dal linguaggio politicamente corretto. Sono stato molto formato da questo clima così come dallo studio del Risorgimento che oggi i giovani studiano poco perché ridotto a un capitolo marginale dei libri di storia»: Padoa-Schioppa faceva ricorso alla memoria della sua gioventù triestina per spiegare che non esiste alcuna contraddizione fra l’essere europei e appartenere a una identità nazionale, difendere il patriottismo economico e avversare il protezionismo, raddrizzare i conti pubblici garantendo la solidarietà sociale.
E ancora Italia e Europa, l’apertura costante verso le nuove idee, la capacità di andare oltre la visione di breve periodo, e il timore costante che l’Italia perda credibilità sui mercati internazionali. Questa sua capacità di interpretare il senso comune di una collettività si esprime anche quando Padoa-Schioppa formula l’elogio delle tasse che sono «bellissime». Le tasse come «la migliore espressione di una pacifica convivenza fra le persone». Si esprime nell’insistere sul valore del risparmio «perchè difende il nostro futuro».
Le sue analisi sono sempre complesse, ricche, sorprendenti da vero protagonista e osservatore allo stesso tempo e nella costante ricerca delle dissonanze del mondo e nel rigetto delle semplificazioni. E con lo sguardo sempre rivolto al futuro e quindi ai giovani, alle nuove generazioni alle prese con un mondo complesso che spesso rifiuta e si oppone ai cambiamenti. Da ministro delle Finanze del governo Prodi, al festival dell’Economia di Trento diretto da Tito Boeri, reduce dalle polemiche dopo la sua frase sui «bamboccioni» che a trent’anni non se ne vanno ancora da casa, parla a una folla di giovani che prendono d’assedio l’auditorium Santa Chiara per ascoltarlo. A tutti rivolge un invito bonario ma realista con il suo sorriso aperto da professore che nonostante la severità ti infonde fiducia e sicurezza: «Dovete muovervi altrimenti i vecchi, da soli, non si ritirano di sicuro. Il compito di cambiare davvero le cose tocca a chi ha meno di quarant’anni». I giovani che devono «fidarsi delle proprie orecchie», come amava dire. Muoversi nel senso di attivare l’intelligenza, non chiudersi nel recinto, trovare nuove opportunità, perchè «solidarietà e meritocrazia non sono in contrasto». Protestare? «Anche le proteste possono essere utili se valgono a scuotere il pigro ottimismo dei funzionari e l’autocompiacimento dei governanti», scrive in un saggio.
Per Padoa-Schioppa la radice più profonda della più sconvolgente crisi economica e sociale dell’ultimo decennio è «la veduta corta», l’incapacità di interrogarsi sul proprio futuro, il familismo, la tutela dei privilegi di pochi, la mancanza di fiducia e di ambizione: «Appartengo -diceva-a una generazione che sente molto forte il richiamo della passione etica e dei valori civili, il richiamo a servire il pubblico interesse rifiutando l’indifferenza politica».
Padoa-Schioppa nasce nel clima etico dei civil servant (i Baffi, i Ciampi, i Sarcinelli), uno dei pochi uomini di economia che ci invidiano all’estero, nominato nel board della Banca centrale europea dove ha lasciato rimpianti assoluti per la sua capacità di interpretare l’europeismo con il rigore del banchiere centrale. A Francoforte nel giorno del suo addio dopo otto anni di permanenza nell’Eurotower scrive un discorso che si intitola aun aprendo (sto ancora imparando).
Dopo la laurea alla Bocconi, entra in Banca d’Italia e vince una borsa di studio che lo porterà al Mit di Boston dove lavorerà fianco a fianco con il premio Nobel Franco Modigliani, un suo riferimento costante nel pensiero economico. Qui elabora la sua visione della finanza che deve essere fondata «sul tempo, sulle promesse, sulla fiducia». Alla fine degli anni Settanta si trasferisce a Bruxelles nella convinzione che «ciò che vale per l’Europa vale anche per l’Italia». Nel comitato guidato da Jacques Delors elabora i principi sovrani della moneta unica e le prime forme dell’integrazione economica europea.
La gioventù triestina di Padoa-Schioppa, e il suo dna familiare (il padre Fabio è stato amministratore delegato delle Generali) si ritrovano così nella sua convinta passione europeista che in parte nasce ripensando anche al dna mitteleuropeo, alla Trieste del Settecento: «La fortuna storica della città è stata quella di trovarsi fra un vasto hinterland e il mare. É stata questa la sua ricchezza». Nel suo passato ci sono stati grandissimi imprenditori che all’inizio dell’Ottocento seppero vedere lo sviluppo nella finanza, nei traffici, nelle assicurazioni». Ancora una volta la «veduta corta» che si spezza, l’orizzonte che si apre come chiave d’accesso al futuro, il muro che cade.
In queste intersezioni, nella moneta unica come «segno forte di una identità europea condivisa», nel superamento delle rigidità economiche, nell’euro come scudo contro le instabilità finanziarie, Padoa-Schioppa partecipa passo dopo passo alla lunga marcia verso la moneta unica dal 1979 al 1999: la firma del trattato di Maastricht nel 1992, gli esami di ammissione nel 1998 (in cui l’Italia centrò lo storico traguardo «grazie alla forza e alla convinzione di Ciampi»), la sparizione delle valute nazionali e della lira. L’Europa diventa «forza gentile», per citare il titolo di un altro dei suoi saggi. Finisce l’epoca delle lotte commerciali, delle svalutazioni competitive, delle corse dei prezzi. Ma non finisce l’anomalia italiana, un Paese che coltiva in sè le sue degenerazioni sociali e politiche.
Padoa-Schioppa è stato sempre animato dalla convinzione profonda che il percorso europeo resti incompiuto e prima o poi dovrà darsi una forma istituzionale definitiva. Dopo la moneta unica l’Europa dovrà darsi una forma istituzionale definitiva, un’anima riconoscibile. Ed è all’Europa che, nella visione dell’ex banchiere centrale, l’Italia deve sempre riconoscersi.
Nel board della Banca centrale europea guidata dall’olandese Wim Duisenberg, dopo avere elaborato nel comitato guidato da Jacqes Delors le tavole della legge della moneta unica, Padoa-Schioppa si trova al centro di rivolgimenti storici, epocali. Ai piani alti dell’Eurotower gestisce la rivoluzione dell’euro, il big-bang che in una notte toglie dalla circolazione le monete nazionali per immettere nei gangli dell’economia globale e dei circuiti finanziari la moneta unica: «Uno sbarco in Normandia senza potere fare le prove», disse.
Arriva l’11 settembre che globalizza i rischi finanziari, sposta la gravitazione dei mercati, fa scendere l’ultimo sipario sul secolo breve dopo il crollo del muro di Berlino. Il pianeta si risveglia all’alba del nuovo secolo sulle macerie del Ground Zero. In un altro suo saggio (Dodici Settembre), Padoa-Schioppa si interroga su un mondo diviso e lacerato dai conflitti, mentre i mercati finanziari si trovano rinchiusi in una panic-room mondiale: «Bisogna tornare alla civiltà della politica. La malattia del nuovo secolo è la tensione fra ciò in cui il mondo è già unito e ciò in cui esso e diviso». Da sempre nemico delle semplificazioni, Padoa-Schioppa postula il primato della politica per trovare «uno spazio di valori condivisi: rispetto dei contratti, solidarietà sociale, uguaglianza». Evoca un’Europa ancora riluttante a completare l’edificio dell’Unione Europea. Cerca ancora una volta di «capire e distinguere».
L’economia, il mercato, non sono il solo fondamento dell’ordine sociale: «Fautori e nemici della globalizzazione sono prigionieri dello stesso mito. La religione del libero mercato e le visioni integraliste sono ambedue diagnosi sbagliate». Il banchiere centrale Padoa-Schioppa, mentre fuori dal palazzo della Bce infuriano le proteste dei no-global, osserva: «Mi trovo, in ragione del mestiere scelto, dalla parte opposta delle transenne che separano le riunioni ufficiali da coloro che manifestano contro di esse». Difensore del modello europeo di welfare state «artefice di fasi espansive dell’economia per molti anni», Padoa-Schioppa da banchiere centrale ha sempre pensato che il rigore di Maastricht non è mai stato «una camicia di forza» ma che senza un assetto politico e istituzionale mancherà sempre un tassello fondamentale della integrazione europea. E l’Italia? Un pensiero costante. Resta il Paese che più fatica a tenere il passo con il progresso di Eurolandia: «Un paese capace di determinazione solo quando è sull’orlo del disastro».
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