Pace: «Il mio Verdi più giovane e aperto alla città»

Il nuovo sovrintendente: «Cartellone attuale insufficiente, va riproposto il Festival dell'operetta»
Stefano Pace al Verdi (foto Silvano)
Stefano Pace al Verdi (foto Silvano)

Stefano Pace sta costruendo la sua ricetta per un Verdi che sappia «aprirsi alla città», che sia «più produttivo» e metta sempre «la qualità» al primo posto. Attingendo alle sue esperienze internazionali (Parigi, Valencia e naturalmente l’ultima, Londra) e nazionali (Catania, Genova), il nuovo sovrintendente del teatro lirico di Trieste vuole dare una svolta alla Fondazione che è chiamato a dirigere.

Sovrintendente, com’è maturato il suo arrivo a Trieste?
Il mio percorso all’estero è stato molto lungo, sino all’approdo alla Royal Opera House Covent Garden di Londra. A quel punto mi era difficile vedere un nuovo passo nella mia carriera. Ma sono sempre stato vicino a grandi direttori d’opera e ho maturato la consapevolezza che quello che avrei voluto fare è dirigere un teatro. Per età, esperienza ed esigenza di vita.

Stefano Pace è il nuovo sovrintendente del teatro Verdi
Stefano Pace (al centro con gli occhiali) in una foto assieme a Bill Clinton

Compreso ciò, con chi ha avuto i primi contatti per giungere al Verdi?
Con tantissimi direttori d’orchestra, che hanno lavorato a Trieste. Con l’occasione che si è creata, sono stato sollecitato in maniera più convincente.

Anche a livello ministeriale?
No, no. Poi, nel momento in cui il mio nome ha iniziato a circolare, anche a livello ministeriale si sono chiesti “perché non riportare in Italia un valore?”.

Ha già lasciato l’incarico a Londra?
Devo completare il lavoro per dare loro il tempo di riorganizzarsi. Senz’altro per i prossimi tre mesi viaggerò fra Trieste e Londra, poi mi dedicherò unicamente al Verdi. In questo periodo sarò tutte le settimane a Trieste per un minimo di giorni almeno: c’è bisogno di prendere in mano la situazione.

La sua presenza costante è richiesta pure dai lavoratori.
Stamattina (ieri, ndr) ho avuto una riunione con i miei collaboratori per chiudere il programma del teatro fino a dicembre. C’è necessità di lavorare. Fare i proclami è facile. Io sono molto concreto e trasparente: bisogna far tornare il pubblico a teatro.

È possibile pensare a collaborazioni fra Verdi e Royal Opera House?
Le spese di produzione di Covent Garden, seppur diminuite del 40% in quattro anni, oggi ammontano all’equivalente di 800mila euro per singola opera, e solo per scene e costumi. Con questo budget qui ne facciamo tre. Se anche avessimo i costi a zero, c’è il trasporto dall’Inghilterra... Una forma di collaborazione è comunque possibile.

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In che termini?
Per dare l’immagine di un nuovo teatro, giovane e dinamico, sulle voci. A Covent Garden, come a Parigi e Valencia, sono attivi interessanti programmi di perfezionamento lirico: i cantanti che arrivano lì per studiare vengono integrati all’attività del teatro. E ci sono produzioni con Francoforte, per il secondo palcoscenico, su cui possiamo fare un discorso. Non escludo una nostra partecipazione per certi lavori, soprattutto in partenza: se siamo i primi, abbiamo la possibilità di valorizzare i nostri laboratori senza farci carico dei costi di trasporto.

Che situazione ha trovato al Verdi?
Il teatro deve essere aperto anche quand’è chiuso, un punto di riferimento, il salotto della città. A Covent Garden stanno per investire 60 milioni di euro di risorse private, per far in modo che i flussi in entrata e uscita sulla piazza siano obbligati a passare nel teatro. A livello di produttività pura, al Verdi sono in corso incontri con le Rsu per la definizione di nuovo integrativo: mi ha piacevolmente sorpreso il senso di responsabilità dei lavoratori.

Hanno già fatto tanti sacrifici in questi anni.
Li useremo per aumentare la nostra produttività, per riempire tutti gli spazi. Minori costi non vuol dire meno qualità. Se diamo una cattiva qualità, gli spettatori non vengono: il teatro è il pubblico. Penso riusciremo a portare a Trieste quei livelli artistici alti che la città ha conosciuto in passato.

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La strada è dunque quella di puntare su qualità, produttività e apertura alla città.
Mi sono accorto di altre cose alla prima dell’Orfeo ed Euridice. Non c’è alcuna attività di promozione e partecipazione nei confronti dei soci: non si può solo chiedere loro i soldi e lasciarli poi così come qualsiasi altro spettatore. Dobbiamo dare loro il valore che meritano.

Ritornando alla produttività, giudica il cartellone attuale insufficiente?
Sì, è insufficiente. L’attività è stata molto, molto condizionata dalla situazione economica. La richiesta dei dipendenti e della massa artistica è di esprimersi di più: questo è pane benedetto. Abbiamo il dovere di massimizzare le risorse che ci vengono assicurate da chi ci sostiene.

Quale futuro per la Sala Tripcovich?
È un elemento che devo esplorare. Ho già un incontro con il direttore dello Stabile (Franco Però, ndr): esiste una commistione di generi che possono trovare collocazione rivolgendosi ad esempio ai giovani in uno spazio meno intimidatorio di quello di un teatro, che sembra d’élite ma che bisogna ripulire assolutamente da questa immagine.

Pensa di riproporre e rilanciare il Festival dell’operetta?
Va riproposto. Verificherò con il ministero la possibilità di avere dei fondi dedicati.
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