Nuova legge italiana sui call center, è allarme in Albania
BELGRADO. C'è preoccupazione in Albania dopo che il Parlamento italiano ha approvato nei giorni scorsi, nell'ambito della nuova legge di Bilancio, una norma che rischierebbe di mettere fine all'eldorado dei call center italiani delocalizzati oltre Adriatico. La legge, licenziata dal Senato lo scorso 7 dicembre e che entrerà in vigore la prossima primavera, prevede regole più severe per le compagnie che decidono di trasferire il proprio servizio clienti all'estero, impattando così su un business che in Albania (dove ampi strati della popolazione parlano italiano) dà lavoro a decine di migliaia di persone.
Nello specifico, la normativa impone alle compagnie che delocalizzano l'obbligo di indicare preliminarmente «il Paese in cui l'operatore è fisicamente collocato», ovvero, al momento di alzare la cornetta, di avvertire se chi parla si trova in Italia, in Albania o altrove. Il cliente potrà allora richiedere di essere messo in contatto con un operatore che si trovi all'interno dell'Unione europea. Inoltre, chi decide di trasferire il proprio call center al di fuori dell'Ue non potrà più usufruire di alcun beneficio, anche di tipo fiscale o previdenziale, e per le imprese che non si adeguano - anche tra quelle già delocalizzate - sono previste delle multe fino a 50mila euro al giorno. Insomma, le nuove norme - è il timore a Tirana - renderanno difficile la sopravvivenza dei call center italo-albanesi. È previsto infatti un periodo di transizione di tre mesi, dopo l'iscrizione della legge in Gazzetta ufficiale, per permettere alle aziende di adeguarsi.
Ma quante sono le imprese "colpite" dalla nuova legge? Secondo il portale locale Birn, le imprese italiane che lavorano nei «servizi alla clientela» in Albania sono 804, per un totale di circa 25mila impiegati. Abbastanza per porre un problema serio, in un Paese da 2,7 milioni di abitanti e con un tasso di disoccupazione del 15% (e del 27% tra i giovani). Così, dopo che a inizio dicembre l'esecutivo albanese ha provato a fare pressione sulle autorità di Roma, questa settimana è intervenuto anche l'ambasciatore italiano a Tirana, Alberto Cutillo, assicurando che «le imprese che operano attualmente in Albania non chiuderanno» ma che «dovranno operare nel rispetto della nuova regolamentazione».
Una frase che non diffonde la rassicurazione voluta nel Paese, dove il settore ha vissuto negli ultimi anni una crescita sostenuta. Nel 2014, uno studio dell'Organizzazione internazionale del Lavoro (Ilo) si era interessato proprio al caso dei call center albanesi, che allora fiorivano nella città di Durazzo (oltre che a Tirana). Tra il 2010 e il 2014 - scrive l'Ilo - il settore dei call center ha creato 2mila posti di lavoro nella sola cittadina adriatica. Un boom che non stupisce se si considera che lo stipendio medio pagato dalle aziende, di circa 300 euro al mese (un terzo di quello pagato in Italia) permette alle imprese che delocalizzano dei grandi risparmi, particolarmente interessanti in tempi di crisi.
Come la Francia con i suoi call center in Tunisia o in Marocco, o come il Regno Unito con le sue aziende finite in India, così l'Italia - concludeva l'Ilo - aveva trovato un terreno economicamente fertile in Albania. Ma era senza contare sulle conseguenze che il trasferimento delle imprese avrebbe avuto sul mercato interno italiano.
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