Notizie dietro le sbarre. Nasce a Trieste “Via Nizza 26”
TRIESTE Non chiamatelo giornalino, altrimenti Pino Roveredo – garante dei detenuti del Friuli Venezia Giulia dal 2014, unico in Italia ad essere stato anche un ex carcerato – si arrabbia. “Via Nizza 26”, il periodico nato all’interno del carcere di Trieste, vuole essere un vero giornale, a tutti gli effetti. Un ponte, di linguaggi ed esperienze, che collega la società libera a quella reclusa: uno strumento per portare fuori dalle celle storie, racconti, problemi, persone.
Quattro facciate, formato A3, bimensile, è realizzato dalla sezione maschile e femminile insieme, grazie all’aiuto delle cooperative sociali La Collina e Reset. Ci lavorano dai 10 ai 12 detenuti, seguiti da sei operatori, come in una vera redazione. «Questa è una casa circondariale, le persone vanno e vengono. Quindi non c’è un numero fisso di “giornalisti” dietro le sbarre», precisa Roveredo. Un numero zero, di prova, a dicembre 2017, poi, una ventina di giorni fa, il debutto. «Un esperimento che nasce sulla scia de “L’aquilone”, il giornale che stiamo facendo già da ottobre dello scorso anno nel carcere di massima sicurezza di Tolmezzo. Ogni numero non ha un argomento preciso: si va dalle condizioni generali del carcere a quella femminile, che sembra essere stata completamente cancellata e dimenticata quasi che la prigione sia solo un ambiente maschile, fino a temi come l’affettività dietro le sbarre, problema mai seriamente affrontato. In Italia da tempo si parla della creazione di spazi preposti a questo, ma non è stato fatto ancora molto».
Distribuito nei luoghi sanitari e nelle scuole, il giornale «non è un obiettivo, ma un pretesto. Grazie a questo strumento si fa cultura, si occupa il tempo, cercando di tirare fuori delle voci che di solito non hanno il coraggio di esprimersi. È un gancio di salvezza: molte delle persone che incontro mi raccontano che riescono a sopravvivere dentro grazie alla cultura. Molti di loro si sono laureati, e magari era gente che non aveva neanche la terza media. Nelle carceri si legge molto di più che nel mondo dei liberi».
Perché questo nome? «Via Nizza 26 era il vecchio indirizzo del carcere. Fino a poco tempo fa c’era ancora qualcuno che per spedire le sue lettere dal Coroneo, scriveva questo indirizzo per non farsi riconoscere».
Ci si riunisce come in una vera redazione «anche se – racconta Roveredo – io faccio il direttore “confuso”, nel senso che lascio molta libertà di scelta. I testi vengono comunque sempre discussi: se, per esempio, nei pezzi si fa riferimento a numeri, statistiche, codici, andiamo sempre a controllare».
In Italia, di giornali dal carcere scritti da detenuti se ne contano una sessantina. Un fenomeno in crescita, anche se le pubblicazioni nascono e spariscono molto velocemente. Il primo, “La grande promessa”, nacque nel lontano 1951, nel carcere di Porto Azzurro, all’isola d’Elba.
Negli anni ne sono comparsi altri, online o cartacei: “carteBollate” (Milano), “Sosta forzata” (Piacenza), “Il cammino” (Secondigliano), solo per citarne alcuni. Già dai nomi delle testate traspare la volontà di connettere chi sta dentro con chi sta fuori. Dal 2005 a cercare di riunire tutte queste esperienze ci pensa la Federazione Nazionale dell’Informazione dal e sul Carcere, voluta da “Ristretti Orizzonti”, il giornale del carcere Due Palazzi di Padova. Salute, istruzione, pena, formazione e inserimento lavorativo, rapporto con il mondo esterno: questi i temi principali che accomunano un po’ tutte le pubblicazioni. Per rendere pubblica una realtà, quella della detenzione, spesso dimenticata.
«Anche per me la scrittura in carcere è stata salvifica», racconta ancora Roveredo. «Io ero Pino “il letterato”, il ragazzo che scriveva le lettere e le vendeva per pacchetti di sigarette. Quelle alle madri e alle fidanzate ne valevano due, quelle al magistrato cinque perché ne andava della mia incolumità. Ed è stato un ottimo esercizio per entrare negli umori, nelle storie, negli stati d’animo degli altri».
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