NON C’È SCIENZA SENZA CULTURA
Pubblichiamo il discorso pronunciato da Claudio Magris al Centro di fisica di Miramare
Signor Presidente, ho la grande gioia ma nessun titolo per darle qui questo saluto. Sono stati ricordati i miei peccati letterari, e sappiamo che tempo fa si proponeva addirittura di espellere gli scrittori dalla repubblica. Per nostra fortuna, in una democrazia non si espelle nessuno. C’è posto per tutti, anche per chi coltiva il vizio delle lettere. Io sono qui per parlare a nome di tutti – chiunque altro potrebbe essere al mio posto –, per dirle grazie.
Grazie per questa visita e per tante cose che rendono più facile, o meno difficile, la nostra vita, per lo stile che lei crea intorno a noi. Lei ha scelto di incontrare soprattutto i rappresentanti delle istituzioni culturali a Trieste. Quando si parla di cultura è sempre imbarazzante, alle volte non si sa bene che cosa sia. La cultura non è l'esercizio di alcune professioni, l’occuparsi di uno o dell'altro campo del sapere; non è la letteratura di per sé; non è la fisica, non è nemmeno aver trovato un nuovo teorema o aver scritto un gran libro che fa di una persona, o della comunità in cui vive, una cultura.
Cultura vuol dire amare profondamente, lavorare, giudicare, cercare di sapere perché si vive. In questo senso, non è appannaggio di nessuna professione, di nessun esercizio. Spesso si crede che chi esercita alcune professioni intellettuali sia una specie di clero laico, che abbia il monopolio culturale. Ogni campo singolo porta un grande contributo all’esercizio quotidiano della cultura, della vita, del lavoro dell’uomo. Che è la passione, l'autocritica, la capacità di riflessione, la capacità di amare una causa senza idolatrarla, di unire critica e passione. Questo è importante nella vita individuale e nella polis.
La politica, nella polis, è fondamentale: può creare un clima bello, brutto, civile o - a seconda dei casi - deteriore, nella vita di una comunità. Crea anche incertezze, la cultura. Il lavoro delle istituzioni è di saper unire le incertezze: anche in chiave radicale ma mai in negativo, mai disperato. La chiave è vivere attraverso il dubbio, ma senza farsene un alibi. Trieste ha avuto una grande cultura. Parlo della cultura letteraria, dell'incertezza, del dubbio sulla propria identità. Dubbio che interroga su che cosa sta nascendo a Trieste, su che cosa può significare – per chi sognava l'Europa di domani – questa cultura di frontiera fra diverse comunità, diverse civiltà.
La frontiera può essere luogo di grandi chance, ma anche di maledizioni. Può essere un posto per incontrare l'altro o una barriera. Può essere difficile vivere le frontiere, incontrarsi. Il grande scrittore polacco Milos racconta che, durante i suoi anni a Vilnius a 200 metri dal caffè dove si incontrava con i suoi amici lituani, c'era un'altro caffè dove si trovavano grandi poeti jddish. Quei 200 metri, per essere varcati, hanno avuto bisogno di un lungo viaggio nel tempo e nello spazio. Oggi le frontiere sono altre rispetto a quelle che hanno segnato la cultura triestina. Ai tempi della mia infanzia e della mia adolescenza, la frontiera era la Cortina di ferro: impraticabile fino alla rottura tra Tito e Stalin. Oggi le frontiere sono altre, corrono all'interno della città. Sono frontiere sociali, che coinvolgono genti che vengono da lontano.
È difficile varcare queste frontiere. Mi vergogno un po'. È molto più facile andare in giro lungo il Danubio e occuparsi di queste cose che non attraversare una frontiera che corra magari a poche centinaia di metri dalla casa in cui si abita. Oggi la cultura, intesa come realizzazione di istituzioni più alte, è data dalla dimensione scientifica. Dimensione che trova sviluppo in centri di eccellenza, luoghi come il Centro di fisica in cui ci troviamo, Centro radicato a Trieste ma aperto al mondo; pensato fin dall'inizio come apertura al mondo, con uno stretto legame fra dimensione particolare, peculiare, locale e quella più alta, senza la quale non esiste verità locale. Anche l'amore per la nostra città ha un significato solo se inquadrato in quella unità più grande che è il Paese, lo Stato, l'Italia e in quell'altra realtà, che è l'Europa.
La battaglia per l'Europa è l'unico nostro futuro possibile. Se non ci sarà, non avremo futuro. Io ho un pochino lavoricchiato in queste istituzioni, soprattutto su questo tema: il problema della scienza non è soltanto quello della ricerca, ma anche quello di diventare parte integrante del mondo in cui la scienza è inserita. Una cosa curiosa: oggi la scienza (intendo le scienze forti, cosiddette esatte, della natura) non riesce a influenzare la cultura che la circonda, non riesce a diventare immaginario. C’è un divario molto grande. Da ciò, anni fa, è nata l'idea del laboratorio di cui mi sono occupato insieme ad altri amici che hanno fatto molte più cose di me, perché più competenti nei singoli casi.
Io credo che la scienza, i centri di eccellenza più alti, siano fondamentali; ma ancora più importante è quella cultura che nasce nella scuola primaria, nella scuola secondaria, nelle università; credo che uno dei problemi più gravi del nostro Paese sia il divario tra l'alto livello di alcuni centri di eccellenza e lo stato triste in cui versano le scuole secondarie e l'università. Senza una buona università non esisterebbe nemmeno un centro di eccellenza come questo di Miramare. Quindi, credo che il nostro problema sia aiutare a superare questa situazione. Detto ciò, noi siamo grati al Presidente della Repubblica del suo gesto d'affetto, di essere tra noi. Il Capo dello Stato qui è a casa sua.
Non è che qui siamo più ospiti noi di lui. Per il futuro, naturalmente, ci sono infinite ragioni per avere preoccupazioni su tutta la linea, ma anche qui ricordo una frase abusata, ripetuta, ma sempre valida; una frase di uno dei più grandi pensatori del secolo scorso che appartengono alla parte in cui ho militato. Una frase di Gramsci, che parlava del pessimismo della ragione - perché la ragione non può non essere pessimista - ma anche dell'ottimismo della volontà. Grazie Presidente.
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