Noi, le malattie e i limiti predittivi della genetica

La possibilità di usare l’informazione genetica per diagnosticare una predisposizione a una malattia in un singolo individuo rimane molto più complessa di come ci si illudeva qualche anno fa
Mauro Giacca
Mauro Giacca ieri alla presentazione di Science&theCity
Mauro Giacca ieri alla presentazione di Science&theCity

TRIESTE Il Museo di Storia Naturale della Smithsonian Institution rimane un must per chi visita Washington. Nel weekend di Pasqua era gremito di visitatori, con una nuova mostra speciale sulle pandemie (dall’influenza a Covid, e con tutti i nuovi virus emergenti) e una sezione sul genoma umano, per celebrare i progressi della genetica medica.

Il Progetto Genoma umano, completato nel 2001 e poi rifinito proprio qualche mese fa, ci ha consegnato l’informazione su tutta la sequenza dei 3 miliardi di nucleotidi (i mattoncini A, G, C e T) che nel Dna caratterizzano la nostra specie umana. Parallelamente, una serie di grandi progetti di sequenziamento individuale ci hanno anche rivelato che ciascuno di noi è diverso in almeno 3 milioni di questi nucleotidi. Queste sono le variazioni genetiche che rendono conto del nostro diverso aspetto fisico, delle attitudini di comportamento e di tutte le altre caratteristiche che rendono unico ciascuno di noi.

Soltanto in qualche caso, queste variazioni impediscono la funzione di una delle 20mila proteine codificate dal Dna, causando una malattia genetica dovuta al difetto di un singolo gene, come la distrofia muscolare, la fibrosi cistica e molte altre (sono più di 4000).

Lo Smithsonian espone anche un sequenziatore di Dna di ultima generazione, di quelli capaci di determinare la sequenza del Dna in tempi brevi e a costo ridotto in ciascun individuo. E mostra anche come questa e altre possibilità di test genetici abbia spianato la strada al business dei test genetici direct-to-consumer (Dtc), per cui sono fiorite aziende come la californiana 23andMe, che su un campione di saliva mandato per posta con il suo Personal Genome Kit (invenzione dell’anno secondo Time nel 2008) prometteva di predire molte malattie e altrettante caratteristiche individuali.

In realtà, però, se la comprensione del genoma umano è un traguardo di portata impareggiabile, la possibilità di usare l’informazione genetica per diagnosticare una predisposizione a una malattia in un singolo individuo rimane molto più complessa di come ci si illudeva qualche anno fa. Il problema è bene esemplificato da due studi sulla componente genetica della schizofrenia, pubblicati questa settimana su Nature.

Che ci sia una predisposizione genetica per questa malattia (come peraltro per tutte le malattie “comuni”, intendendo con questo termine, ad esempio, l’infarto del miocardio o il morbo di Alzheimer o il diabete) è cosa ben saputa da diversi decenni. Il rischio di andare incontro alla schizofrenia aumenta enormemente nelle famiglie in cui è già presente uno schizofrenico: diventa del 4% se il parente è di secondo grado (nonno, zio), 9% se di primo grado (fratello, genitore), 17% volte se è un gemello non identico, e quasi 50% se è un gemello omozigote. Sembrava quindi semplice pensare che, per questa malattia, la determinazione delle variazioni genetiche del Dna degli individui malati potesse rivelare quali fossero i geni coinvolti. Uno dei due studi di Nature ha analizzato 76.755 individui con la schizofrenia e 243.649 persone sane cercando le variazioni genetiche associate alla malattia, il più massiccio studio mai condotto.

Il risultato è stato che sono ben più di un centinaio i geni potenzialmente coinvolti, la cui combinazione è diversa nelle diverse persone, tanto che il contributo individuale di ciascuno di questi geni diventa minuscolo. Il secondo studio ha invece sequenziato la porzione del Dna che codifica per le proteine in 24,248 individui con schizofrenia e 97,322 controlli sani, di nuovo uno sforzo formidabile. Questo studio ha rivelato 10 geni potenzialmente coinvolti, stavolta ciascuno con un effetto causale notevole, ma talmente rari che possono spiegare la schizofrenia solo in un piccolo numero di individui. In altre parole, per la schizofrenia, o il contributo è dovuto a moltissime varianti messe insieme o a pochi singoli geni, ma questi ultimi talmente rari che possono spiegare la malattia solo in un numero esiguo di pazienti. Considerazioni analoghe valgono per la maggior parte delle altre malattie comuni, come anche per i tratti del comportamento o le caratteristiche fisiche.

La complessità della predisposizione genetica ha una conseguenza pratica molto importante: nella maggior parte dei casi, rimane tuttora impossibile usare la genetica per predire il rischio individuale di una persona di contrarre una specifica malattia. Il paradigma di questo problema è rappresentato dalle malattie cardiovascolari: nonostante i progressi in termini di comprensione dei geni potenzialmente coinvolti nel rischio di sviluppare un infarto, gli unici predittori che possiamo usare a livello clinico rimangono quelli storici: livello di colesterolo, pressione arteriosa, indice di massa corporea, sesso. Se l’inaspettato livello di complessità della componente genetica delle malattie comuni sta creando non pochi problemi concettuali alla medicina, ha anche smorzato l’appeal delle company Dtc, che hanno il divieto dalla Fda negli Stati Uniti di diagnosticare predizioni genetiche che sarebbero inattendibili, e si ritrovano a proporre gli studi genetici semplicemente per comprendere la discendenza genealogica degli individui.

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