Niente salvataggio, fallita la Tergestea

Sentenza del Tribunale. Mai versati i 5 milioni annunciati per ricapitalizzare
La sede della Tergestea
La sede della Tergestea

Si è aperto il baratro: fallimento per la Tergestea, la storica casa di spedizioni. Lo ha deciso il collegio composto dai giudici Riccardo Merluzzi, Arturo Picciotto e Daniele Venier. La sentenza - pronunciata qualche giorno fa - mette la parola fine alle speranze di una miracolosa ripresa così come era stata evocata anche nell’ultima udienza, il 16 dicembre. La ciambella di salvataggio non è arrivata.

Era stato annunciato in quella data un bonifico di 5 milioni di euro, ma quei soldi non sono mai stati versati nel conto corrente della società. Il collegio del Tribunale fallimentare non ha potuto fare altro che prenderne atto e decidere per il fallimento.

Il curatore designato dal giudice delegato Riccardo Merluzzi, l’avvocato Paolo Simeon, ha ora tre mesi di tempo per controllare conti e bilanci della Tergestea definendone lo stato passivo: il buco, secondo le prime ipotesi, raggiunge la cifra di 5 milioni di euro. Ad aprile il curatore dovrà rendere conto al giudice della sua indagine e soprattutto delle prospettive di vendita dei beni per ricavare il denaro con cui pagare gli stipendi dei dipendenti, ma anche le banche e i creditori. A quel punto si apriranno nuovi scenari. Un’acquisizione della società a prezzo evidentemente stracciato, o la morte in tutti i sensi.

La società (nel cui ambito l’anno si era aperto nel peggiore dei modi con un tragico infortunio costato la vita in febbraio al magazziniere Valerio Colarich) lo scorso luglio aveva annunciato all'Autorità portuale di voler rinunciare alla metà del Magazzino 58 del porto che aveva utilizzato fino ad allora, e alla banchina antistante. Poi i conti in rosso. E le banche che non anticipavano più. A chiedere il fallimento della Tergestea rivolgendosi al Tribunale erano state all’inizio di dicembre due ditte di autotrasporto: la Caau di Udine e la Fioravanti. Erano stanche di accumulare crediti.

La corsa al salvataggio si è snodata in una situazione sempre più difficile, con una decina dei 26 dipendenti che avevano già dato le dimissioni. L’ultimo stipendio era stato pagato in maggio. Poi i clienti persi, il magazzino e la banchina del porto ceduti, i conti correnti bloccati, la corrente elettrica della sede principale di via Canalpiccolo disattivata per morosità da luglio.

In poche settimane si è così consumata l’agonia della storica azienda della famiglia Valenzin, un tempo leader nel Nord Adriatico. Il proprietario Guido, esponente della terza generazione, ha rinviato di settimana in settimana le spiegazioni al Piccolo e anche ai dipendenti, per poi disattivare il cellulare.

In breve lo scenario si è spostato in Tribunale. E qui è comparso Giuseppe Correro, l’uomo della ciambella di salvataggio. Correro è un ex dipendente della Tergestea e negli ultimi tempi consulente della società. Ha un passato segnato da guai giudiziari quando come promotore della Rasbank, tra il 2002 e il 2004, era stato accusato di essersi appropriato di un miliardo e mezzo di lire di depositi dei risparmiatori.

Il 16 dicembre scorso, uscendo dall’ufficio del giudice Merluzzi a Palazzi di Giustizia, il legale di Valenzin, Paolo Stern, aveva dichiarato: «Abbiamo fornito tutti gli elementi per una definizione favorevole e positiva della vicenda». Con lui c’era appunto Correro, che qualche settimana prima aveva annunciato un personale ingresso nel capitale sociale con la conseguente iniezione di liquidità. «I soldi - aveva aggiunto Stern - arriveranno però solo domani (ndr, il 17 dicembre) in conto corrente».

I giudici del Tribunale fallimentare hanno atteso per una settimana. Le carte, i documenti che avrebbero dovuto dimostrare il bonifico non sono mai arrivati. All’inizio qualcuno ha ipotizzato un disguido. Ma in breve la verità è venuta a galla. Non c’è stato alcun bonifico. Nessuna ciambella, nessun salvatore. Solo un crac. E 26 lavoratori con le loro famiglie si sono trovati di fatto senza reddito.
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